Oltre Minari: come il Hollywood sta rivoluzionando la narrazione sulle persone asioamericane
Con Minari il cinema prosegue un discorso sulla vita degli asioamericani tra due continenti che si parlano e che vanno a definire l'identità
La famiglia Yi si è trasferita dalla costa all’America centrale. Non l'hanno fatto per cercare fortuna, bensì per trovare un diverso tipo di successo. Il padre di famiglia, stanco di un lavoro umile, ma sufficientemente remunerativo, decide di reinventarsi imprenditore. Coltiva la terra per generare la materia prima che arriverà nei piatti coreani. Siamo negli anni ’80 e molti asiatici stanno popolando le città U.S.A, l’occasione sembra imperdibile.
Il film di Lee Isaac Chung, candidato a 6 Oscar e vincitore del premio come miglior attrice non protagonista per Yoon Yeo-jeong, fa parte di una cerchia ristretta di opere su questo tema. Visto però il successo popolare, e la necessità dell’industria di raggiungere nuovi pubblici, c’è da aspettarsi altri interventi in futuro, sempre sul rapporto tra la comunità asiatica e l’America.
La trama è esile ma significativa. Rachel Chu accompagna il fidanzato al matrimonio di un’amica e scopre che la sua famiglia è: bellissima, potentissima e ricchissima.
Un salto non male per coloro che, al cinema, erano spesso rappresentati come spalle simpatiche o criminali. Come donne seducenti o sottomesse. Raramente gli asiatici hanno avuto il fascino glamour di Crazy & Rich.
Sotto questa patina da commedia del film c’è però un primo segno di una crisi identitaria che ora è preponderante nel discorso imbastito da queste nuove voci. La famiglia che va al matrimonio non è pienamente riconosciuta come americana quando è negli U.S.A, ma non è nemmeno a suo agio quando torna in patria. Dove sta la loro casa allora? Ovunque, e quindi da nessuna parte.
Ma non è una sofferenza per loro, anzi, è una ricchezza, è una voglia di vivere il mondo appieno.
Il discorso viene continuato da Farewell - Una bugia buona. Dove una ragazza nata e cresciuta in America deve tornare in Cina per salutare la nonna a cui è stato diagnosticato un tumore. La famiglia inscena un finto matrimonio per permettere a tutti di riunirsi un’ultima volta. Anche qui la patria di Billi (Awkwafina) è fluida. Convinta newyorkese riporta, a fine film, la sua identità di persona cinese con sé nelle strade affollate della metropoli.
Questa scissione della patria non è mai drammatica o bipolare, come accade ad esempio con i film dedicati alle nuove generazioni afroamericane che gridano spesso un forte senso di estraneità. Qui la casa è slegata dal luogo fisico, ma è un fatto culturale. Adattarsi è quasi nella natura dei personaggi.
Il centro che bilancia la loro identità è infatti la famiglia. Estesa, sparsa per il mondo, però è una catena di accettazione che definisce essa stessa la cultura e quindi risponde alla domanda “cosa sono io?”. Billi è americana e non concepisce che alla nonna venga omessa un' informazione così importante come il fatto che stia per morire. Sin dall’inizio la famiglia cinese mente, costruisce un’intera impalcatura di menzogne a fin di bene. Inaccettabile, per la cultura occidentale individualista, che tutti portino il peso della malattia tranne la diretta interessata.
Farewell non afferma però un modello superiore all’altro, semplicemente li fa convivere come due estremità di un filo tenute strette da Billy. Ma se lei non fosse partita per la Cina, tutto avrebbe funzionato comunque. Perché secondo il film sono i legami famigliari che tengono insieme le persone anche nelle difficoltà.
Ritorniamo quindi a Minari che, a questo punto, fa fare un altro salto in avanti proprio a questo ragionamento. Non siamo più nel mondo cinese bensì in quello coreano. Questa volta la scissione è proprio all’interno del modo di intendere la famiglia. Jacob, il padre, è pienamente americano, è inserito alla perfezione in quel modo di pensare. Cerca di realizzare l’american dream per mostrarsi capace di successo agli occhi dei figli. Bambini che, loro stessi, cercano la convenzionalità U.S.A nei propri genitori. Vogliono che la nonna faccia i biscotti proprio come quelle dei loro amici. Cercano un modo di vivere urbano, guardando il padre, e comunitario quando danno ascolto alla madre.
Monica teme che tutto si sgretoli sotto il peso dell’ambizione. Come se il marito volesse fondare una famiglia, senza vedere che già ce l’ha. La donna cerca quindi una comunità (la chiesa locale, le colleghe al lavoro). Riesce però a entrare in sinergia solo con chi condivide l’interpretazione e la filosofia di vita più vicino alla sua, ancora legata alla Corea. La presenza della nonna, arrivata per aiutare, è in realtà un catalizzatore. Occorre scegliere, dice indirettamente Monica, cosa essere e che sogni inseguire.
Il finale del film non si distanzia molto da Farewell però. Invece di essere un grido di orgoglio conservativo delle proprie origini, è un segno di speranza. Le nuove coltivazioni crescono. Con fatica, in piccola quantità, ma hanno oramai messo le radici. Non è più tempo per gli asioamericani di decidere dove stare, ma di come stare e dove iniziare a crescere dando nuova vita a un terreno solo apparentemente arido.