Oblivion è l’apocalisse sanificata che sognavamo un tempo
Oblivion di Joseph Kosinski si immagina una fine del mondo molto diversa da quella che racconteremmo oggi
Ecco perché rivedere Oblivion (in streaming su Netflix, qui la nostra recensione) oggi, mentre siamo nel mezzo di una pandemia, fa un effetto strano: il film (guarda il trailer qui) è uscito sette anni fa eppure assomiglia più che altro a un documento storico, a una reliquia di un passato relativamente più tranquillo in termini escatologici, un tempo nel quale la convinzione diffusa era ancora quella che il futuro dell’umanità fosse tra le stelle (visto che la Terra ormai era da buttare) e che i salvatori della specie assomigliassero a Elon Musk, non al dottor Fauci. Con il terrore di un virus che serpeggia in ogni angolo del pianeta e davanti la prospettiva di altri mesi barricati in casa in attesa che passi la tempesta, Oblivion e la sua apocalisse sembrano grondare ottimismo.
Oblivion e Tron: Legacy
Come detto sopra, Oblivion nasce sotto forma di graphic novel,
Con il resto del cast completato da Olga Kurylenko, Andrea Riseborough, Morgan Freeman e un allora arrembante Nikolaj Coster-Waldau, Oblivion venne girato in cinque mesi tra gli Stati Uniti e l’Islanda, e uscì nell’aprile 2013 facendo un più che discreto successo al botteghino ma non riuscendo a convincere la critica, che ne, appunto, criticò soprattutto la scrittura confusa e frammentata e una certa mancanza di ritmo, lodandone però l’aspetto visivo e le prove attoriali. Un classico per il 99% dei prodotti di genere ad alto budget usciti negli ultimi vent’anni, insomma, e se gli anni non sono stati generosi con la sceneggiatura del film (che è effettivamente un pasticcio inutilmente intricato) né con certe sequenze nelle quali la CGI mostra i segni dell’età, quello che più sorprende di Oblivion oggi, che al tempo non venne, per forza di cose, notato da nessuna parte, è quanto il suo immaginario sia invecchiato e abbia perso mordente nel giro di meno di un decennio.
Oblivion e la fine del mondo
Al netto degli spoiler, che cercheremo di evitare il più possibile sempre partendo dalla considerazione che stiamo parlando di un film di sette anni fa, la storia di Oblivion è quella di un’invasione aliena e dell’unica risposta possibile per l’umanità, cioè un tappeto di bombe atomiche per spazzarla via. La guerra in questione, contro delle entità note come “Scavengers” (sì, anche in italiano), è particolarmente violenta: distrugge la Luna, con tutte le prevedibili conseguenze sul pianeta in termini di disastri geologici, e trasforma la superficie terrestre in un deserto bruciato dalle radiazioni; quel che resta dell’umanità è volato nello spazio, su Titano, una delle lune di Saturno, e sulla Terra rimangono solo Wall-E ed EVA Tom Cruise e Andrea Riseborough, che si occupano della manutenzione e protezione di gigantesche strutture che estraggono l’acqua dall’oceano e la trasformano in energia per alimentare la stazione orbitante Tet, dalla quale la coppia protagonista riceve le proprie istruzioni.
Come detto prima, la scrittura è un pasticcio, non tanto presa in un vuoto ma se applicata ai tempi cinematografici: quello di Kosinski è un tipo di world building dal respiro letterario, che introduce pochi pezzi di mitologia alla volta e si prende tutto il tempo che serve per lasciare a chi legge il tempo di digerire le informazioni; compressa in un film, per quanto lungo due ore, questa massa critica di nozioni diventa una valanga intellettuale che trasforma tutto il primo atto del film in un lungo spiegone che dettaglia passo dopo passo quello che è successo negli ultimi sessant’anni, dall’arrivo degli alieni a oggi.
La bellezza dell’apocalisse
Oblivion è un testo molto chiaro, almeno all’inizio: è un omaggio alla sci-fi anni Settanta che vuole parlare della vita dopo la fine del mondo, di colonizzazione spaziale e della sopravvivenza della nostra specie, due temi che in tempi di guerra fredda e minaccia atomica erano costantemente in cima alla lista delle preoccupazioni. Quella di Kosinski è un’apocalisse clinica, sanificata, della quale non vediamo gli effetti immediati (le morti, le mutazioni, i tumori, la disperazione) ma l’onda lunga, in un mondo nel quale la natura ha avuto tempo di riconquistare i propri spazi e tornare a riempire le nicchie abbandonate dall’uomo. È la post-apocalisse di Horizon: Zero Dawn (tanto per introdurre un argomento sul quale torneremo), quella dove ciò che resta dell’umanità vive in torri ipertecnologiche che sembrano uscite da una rivista di design d’interni e dove la natura e persino i resti della nostra civiltà hanno un fascino selvaggio e indomito e sempre rigorosamente lucidato fino a brillare; è, in altre parole, non la post-apocalisse che ci aspettiamo nel 2020.
Provate a prendere la situazione attuale, amplificarla, peggiorarla, vederla non come un’emergenza che passerà ma come i prodromi dell’apocalisse: in quest’ottica, il mondo del 2077 (l’anno in cui si svolge Oblivion) non assomiglierebbe a quello del film, ma sarebbe più vicino a quello di un Mad Max a caso, o di Soylent Green, o di I figli degli uomini. Nel 2013 eravamo ancora convinti che il pianeta fosse spacciato ma l’umanità avesse grandi prospettive davanti a sé, di esplorazione spaziale, colonizzazione di altri pianeti e altre lune; oggi viviamo nel terrore che anche se il pianeta guarisse saremmo noi a rimanere ammalati, e che non sarà questa pandemia (con conseguente crisi economica in allegato) a darci il colpo di grazia ci penserà la prossima. In questo senso, la fine del mondo di Oblivion è quasi speranzosa, un ritorno alla natura (e al distanziamento sociale obbligato, vista l’esigua quantità di sopravvissuti che rimangono alla fine del film) e un’opportunità per ricominciare da capo, più saggi di prima.
L’altro problema di Oblivion, e il suo più grande merito
Tutte queste riflessioni suscitate dal primo atto di Oblivion, quello più descrittivo e d’atmosfera, si depotenziano e perdono di senso con il procedere del film, che con il secondo atto (ed è questo, e lo era già nel 2013, il suo più grosso difetto) comincia ad accumulare rivelazioni e plot twist che modificano costantemente la natura della storia e a un certo punto diventano talmente inutilmente intricate da sembrare il fine più che un mezzo; arrivati alla fine ci si chiede se fosse davvero tutto necessario, e se questa storia non avrebbe funzionato meglio su carta, e lungo l’arco di centinaia di pagine. Neanche il finale tipicamente hollywoodiano, con one-liner a effetto e tutto quanto, riesce a riscattare appieno il pastone narrativo dell’ora precedente, e c’è un motivo se oggi Oblivion è ricordato per il suo aspetto e non per le cose che aveva da dire.
Ed è proprio di aspetto che vogliamo parlare prima di chiudere, perché se al cinema la post-apocalisse di Oblivion è durata una stagione prima di passare di moda e lasciare il posto a una fantascienza diversa, più realistica (Gravity, The Martian) o più catastrofica (Mad Max: Fury Road) ma comunque lontana dalla perfezione-Apple del film di Kosinski, c’è un altro mondo sul quale il film ha avuto un impatto enorme, ed è quello dei videogiochi. Il già citato Horizon: Zero Dawn è un esempio, ma tracce di questo modo di immaginare sia la fantascienza sia la fine del mondo si ritrovano in diversi prodotti usciti dal 2013 a oggi, dal recentissimo Death Stranding – le cui somiglianze con Oblivion potrebbero essere dovute anche al fatto che il film è stato girato in Islanda, i cui paesaggi hanno ispirato l’America del gioco di Kojima – a No Man’s Sky, che in un paio di casi ha copiato spudoratamente il design architettonico di Daniel Simon.
Oblivion è in streaming su Netflix