Nope: lo spettacolo per Jordan Peele è gabbia e sfruttamento
Nope parla del cinema e dell'industria come una gabbia per creativi che crea finzione e sfrutta fino a devastare tutto ciò che fa soldi
L'immagine degli studios di Hollywood come dei parchi a tema in cui i registi costruiscono le attrazioni e il pubblico se le sorbisce non è certo nuova. Bussare alla porta di Martin Scorsese per avere un ripasso del concetto. La metafora serve a denunciare l’industrializzazione dei processi produttivi in campo artistico. La paura è che gli studios appiattiscano ogni creatività omogeneizzando il prodotto secondo calcoli matematici. Il deserto di Aqua Dulce in cui è ambientato Nope simboleggia l’aridità creativa che riduce la produzione di storie a cliché e falsificazioni per provare a compiacere un pubblico sempre meno appassionato. Solo l’arrivo di un miracolo dall’alto può cambiare le cose e ridare acqua alla terra arida. Nel film questo ha la forma di una nuvola aliena che ci sfrutta e che viene sfruttata a sua volta.
Nope: horror, metacinema ed exploitation
Nope di Jordan Peele È un film strutturato su tre strati. Il primo è quello di un film di genere, l’horror fantascientifico. L’originalità dello spunto di partenza non gli impedisce di rientrare nei canoni delle sceneggiature con mostri. Uomo contro soprannaturale, preda e cacciatore, una sfida per la sopravvivenza.
La terza chiave di lettura viene dal suo set. Jupiter's claim è fatto di cartone e plastica, assomiglia a una città vera, ma non lo è. Un po’ come lo studio televisivo non è una vera casa e Gordy, lo scimpanzé che compie il massacro, non è un docile animale-attore. Se vediamo Nope sotto questo punto di vista, quello che emerge è un film sulla cattività. La sconvolgente scena di apertura si può spiegare attraverso il riferimento ai fatti autentici, quelli di Travis lo scimpanzé. Resta però in sospeso nel resto del film, e marginale nella trama. È però la chiave di lettura di tutto ciò che segue. Un animale sfruttato, un mostro usato per fare soldi, due fratelli neri cresciuti nel deserto in cui si crea la finzione. Una prigione a cielo aperto.
Nope è così anche un film sul cinema d’exploitation, quello che sfrutta i temi caldi o scandalosi per attirare il pubblico. Sono presenti in Nope i vari generi d'exploitation: la violenza e il sangue (shock exploitation), il documentario sensazionale (un “mondo film” con alieni) e gli stereotipi afroamericani (la blaxploitation). Tutto grazie alla gabbia invisibile in cui si svolge.
Nessuno può scappare dal deserto
La scenografa Ruth DeJong riesce a creare visivamente una tensione tra ciò che è vero e ciò che è riprodotto. Persino il cognome dei protagonisti, Haywood, richiama l’industria del cinema di Los Angeles. Jupiter's claim rappresenta la finzione. Un’illusione alla pari di quella di un cinema delle origini interamente bianco, come fanno notare Otis ed Emerald, nella celebre immagini di Muybridge tutti guardano il cavallo, nessuno il fantino. L’uomo, nero, è un loro avo.
Siamo tutti imprigionati come Gordy in una finzione. Un deserto (creativo) da cui nessuno può uscire. Lo scimpanzé, sfruttato, si è ribellato ai suoi padroni e al ruolo imposto di animaletto carino. Ha fatto una strage. I due fratelli neri con quasi tutto “Hollywood” nel cognome sono maestranze sfruttate, messe da parte e con la storia nera tradita dai bianchi. Si riappropriano della capacità di fare cinema: fotografano il mostro, aprono gli occhi al mondo verso una nuova realtà. Gli alieni esistono! Ma qualcuno ci crederà?
La nuvola è ciò che rende impossibile il lavoro di un cineasta che gira sui set naturali. È la pioggia che arriva all’improvviso e butta via la giornata di riprese. È l’unico difetto in un cielo terso. Però è anche la meraviglia da catturare per generare attrazione, quindi biglietti staccati e, in definitiva, soldi. Tutto si svolge nel deserto, tra una casa solitaria e una riproduzione di una città vera. I fantocci sono ovunque, quale umanità può emergere da qui?
La voracità di Hollywood
Nope parla di bestie affamate, violente e disposte a tutto pur di sopravvivere. Praticamente indica la competizione fino all’ultimo schermo, o al maggior numero di stream. La follia vorace del mondo dell’intrattenimento, disposto a tutto per arrivare per primo e per farlo meglio di tutti gli altri. La corsa all’immagine perfetta è un non-sense. Non c’è ragione per non scappare, e invece non solo i protagonisti restano e combattono, ma addirittura arrivano dall’esterno persone per assistere allo spettacolo e catturarne un pezzo. In Civil War Alex Garland mostra una distopica guerra civile sul suolo americano. Inguardabile ad occhio nudo, i fotografi stanno nella cruda realtà proteggendosi con l’obiettivo e diventando però insensibili alla violenza reale.
In Nope il discorso è opposto. La cinepresa non protegge, ma ci porta a fare follie. Non basta più uno schermo, una distanza, ora sia l’audience che i filmaker devono entrare nell’azione, venire coinvolti con l’estensione del loro occhio, fino ad esserne assorbiti e stritolati. La realtà ci annoia. La realtà non esiste più, dopo secoli di distorsioni storiche, di egemonia audiovisiva portata avanti da una sola parte (i bianchi americani). Allora non resta che rifugiarsi nella finzione del nuovo circo, quello moderno, più bello e scintillante. Così facendo i personaggi si mettono nella giusta predisposizione per permettere allo straordinario di bussare alla loro porta e diventare fonte di commercio, generatore di ricchezza.
Il fatto che il set di Nope sia stato riciclato attrazione degli Universal Studios di Hollywood, con una storica apertura in day and date con l'arrivo del film in sala, è la prova che Jordan Peele ha ragione.
Nope è su Amazon Prime Video