Non perdetevi il ritorno al cinema di The Elephant Man, il film che "si inventò" un Oscar
Il secondo film di David Lynch convinse l’Academy della necessità di creare un Oscar per il miglior trucco
Rick Baker è considerato uno dei più grandi e più influenti creatori di effetti speciali della storia del cinema; vincitore di sette Oscar per il miglior trucco (su undici nomination ottenute in totale nel corso del tempo), la sua carriera di trionfi cominciò all’inizio degli anni Ottanta, nel 1981 per la precisione, quando l’Academy premiò il suo lavoro in Un lupo mannaro americano a Londra.
Uno studio sulla dignità umana
Tratto in egual misura dai diari di Frederick Treves, il medico che ebbe in cura l’eponimo Elephant Man, e da questo saggio sull’argomento di Ashley Montagu, The Elephant Man è la storia, vera seppur con qualche licenzia poetica, di una persona affetta da una malattia ancora oggi non del tutto chiara e che ne segnò irrimediabilmente l’esistenza, visto che lo trasformò in quello che nel film viene alternativamente definito “un mostro”, “una creatura” o “uno scherzo della natura”. Quello che ci interessa per ora, però, non è raccontare questa storia – per scoprirla, se non la conoscete, il consiglio è quello di godervela al cinema –, ma la storia di come questa storia sia diventata un film, e che cosa c’entri con gli Oscar.
Lascia fare ai professionisti, David
Lynch, che veniva da un inizio di carriera all’insegna dell’indipendenza creativa e produttiva, contribuì anche alla colonna sonora e al sound design del film, ma non riuscì a fare filotto: i suoi tentativi di creare anche il trucco per l’uomo elefante andarono a vuoto, e alla fine il compito fu affidato a Christopher Tucker – un tizio con una carriera interessante, responsabile tra l’altro della trasformazione di Terry Jones in Mr. Creosote nel Senso della vita dei Monty Python e della protesi fallica che diede la fama al pornodivo inglese Long Dong Silver. Per The Elephant Man Tucker fece un lavoro i cui risultati potete ammirare nelle foto che corredano il pezzo oppure andando al cinema, e se non fosse stato il 1980 ma il 1981 avrebbe anche vinto con ogni probabilità l’Oscar per il miglior trucco.
Peccato che nel 1980 la categoria ancora non esistesse: The Elephant Man si portò a casa otto candidature (tra cui Miglior film, Miglior regista e Miglior attore protagonista), ma la Board of Governors dell’Academy ricevette anche una lettera di protesta firmata “l’industria”* nella quale si intimava di dare al film di Lynch un Oscar estemporaneo per premiare la qualità del lavoro di Tucker.
Non accadde, e nonostante le otto nomination il film non vinse neanche un Oscar, ma dall’anno dopo l’Academy decise di introdurre una nuova categoria, quella, appunto, per Miglior trucco, che venne assegnata per la prima volta a Rick Baker.
Sotto il trucco c’è di più
È un peccato, però, ricordarsi di The Elephant Man solo per lo straordinario lavoro di Christopher Tucker, la cui applicazione sulla faccia e il corpo di John Hurt costrinse peraltro Lynch a girare le sue scene a giorni alterni e portò l’attore a dichiarare quanto riportavamo a inizio pezzo. È facile ricordarsi del secondo film di David Lynch per il suo impatto visivo, e altrettanto facile, per chi ama l’artista americano, identificarlo come “uno dei suoi pochi film normali”, preceduto e seguito com’è da Eraserhead, Dune e Velluto blu.
È vero, The Elephant Man è sicuramente il film di Lynch più lineare e di facile lettura, forse più ancora di Una storia vera, ma è punteggiato qui e là di suggestioni visive e tematiche che arrivano da Eraserhead e che poi torneranno in tutta la carriera del regista: certe dissolvenze che esitano qualche istante di troppo prima di completarsi, la sua ossessione per gli sguardi – anche prevedibile, in un film che parla di una persona talmente brutta e deforme che la gente dice di non volerla vedere ma poi paga fior di denaro per farlo –, la sua straordinaria capacità di fondere surrealismo e melodramma, e inevitabilmente anche il suo forte debito nei confronti dell’horror. Per chi è fan di Lynch, The Elephant Man è una miniera, ed è un piacere metterlo a confronto con quello che verrà dopo per scovarne le radici comuni.
Accettazione e sopportazione
Per chi è invece fan delle storie che parlano di umanità, del bene e del male, del buon cuore e della dignità, che si domandano a ogni occasione “chi è il vero mostro?” (e quindi anche per chi è fan di Tim Burton), The Elephant Man è altrettanto ricco di spunti, e anzi potrebbe risultare doppiamente interessante se calato nel contesto del 2020, dove “inclusività” e “accettazione della diversità” sono concetti sempre più sdoganati per lo meno a parole. Certo, è impossibile negare che a tratti sia tutto troppo: non arriveremo a usare termini come “ricattatorio”, ma è innegabile che Lynch non perda occasione per strappare una lacrima al suo pubblico, qualcosa che è sempre stato bravissimo a fare e che qui gli viene particolarmente facile vista la condizione estrema del suo protagonista – amplificata peraltro dalla consapevolezza che quello che stiamo guardando è una storia vera, e che tutta quella sofferenza non la subisce solo John Merrick, personaggio di finzione, ma l’ha subita anche Joseph Merrick, persona reale.
L’aspetto forse più interessante di The Elephant Man è che il suo messaggio più importante non viene enunciato ma sotteso e dato per scontato. Merrick diventa una celebrità in quello che è un embrione della cosiddetta “società dello spettacolo”, e tutto il film è attraversato da due correnti parallele e apparentemente opposte che scoprono di avere più cose in comune di quello che vorrebbero avere: da un lato c’è il signor Bytes, l’impresario che per il spettacolino circense sfrutta Merrick in quanto freak, dall’altro il dottor Treves, che prende Merrick sotto la sua ala protettrice e ne accompagna la trasformazione in membro funzionale e apprezzato della società londinese.
Entrambi partono dal presupposto che la deformità di Merrick sia motivo di meraviglia e interesse (e disgusto e orrore, nel caso di Bytes), ed entrambi a modo loro lo sfruttano per motivazioni egoistiche: Bytes per guadagnarci denaro, Treves per dimostrare a se stesso e ai suoi colleghi che anche un mostro più diventare un essere umano. Lo stupore degli spettatori di Bytes di fronte ai tumori che devastano la faccia di Merrick, e quello dei colleghi di Treves di fronte al mostro vestito elegante che va a teatro insieme alla figlia della regina Vittoria, sono quindi in realtà la stessa cosa, e sono figli di un’istintiva non-accettazione del diverso, dell’idea che chi non corrisponde ai canoni medi, estetici e di salute, della società non potrà farne mai pienamente parte, al limite entrare dalla porta di servizio, invitato da un gesto di pietà e carità. Parlare di “accettazione del diverso”, dunque, non è del tutto corretto: The Elephant Man il film parla piuttosto di sopportazione (diversi gradi di sopportazione, dove il dottor Treves di Anthony Hopkins e la Madge Kendal di Anne Bancroft sono sui gradini più alti), e in questo senso è significativo il fatto che (non lo consideriamo uno spoiler ma se proprio avete l’allergia smettete di leggere qui) Merrick muoia da solo.
*licenza poetica