Non esiste horror per tutta la famiglia migliore di Poltergeist

Il film di Tobe Hooper (o è di Steven Spielberg?) è ancora oggi il perfetto esempio di "horror per tutti"

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Uno dei più grandi what if della storia del cinema riguarda quella che sarebbe potuta essere la carriera di Steven Spielberg se non avesse scoperto da subito di essere bravissimo a raccontare un certo tipo di storie e creare un certo tipo di atmosfere e rivolgersi a un certo tipo di pubblico che tendenzialmente non coincide con quello degli horror. Poltergeist, arrivato su Prime Video proprio in questi giorni, è una parziale risposta a questo dubbio amletico, la dimostrazione (se mai ce ne fosse davvero bisogno) che Spielberg ha sempre avuto il talento (e pure la passione) neanche troppo nascosto per un certo approccio al fare paura raccontando una storia, e sempre troppo poche occasioni per sfogarlo.

Paso doble

Questo primo paragrafo è estremamente ingeneroso nei confronti di uno dei più grandi registi horror di sempre – e con questo intendiamo “uno dei dieci”, non “uno dei cento” –, Tobe Hooper, che figura come regista del film e che, stando a ricostruzioni e testimonianze spesso in diretto contrasto tra loro, ha contribuito in maniera significativa alla realizzazione di Poltergeist (del quale figura come regista) nonostante i pettegolezzi che per anni hanno sostenuto come il suo ruolo fosse quello del figurante e il vero lavoro l’avesse fatto Spielberg. C’è una ragione dietro a queste voci: al tempo lo zio Steven stava lavorando a E.T., e pare che il contratto contenesse una clausola che gli vietava di girare altri film fino al momento dell’uscita di quello sull’alieno con il ditone luccicante; Poltergeist era fin dall’inizio una sua idea, una versione horror di Incontri ravvicinati del terzo tipo, per quanto rivista e trasformata in storia di fantasmi proprio con l’aiuto di Hooper, e la vulgata vuole che Spielberg abbia usato il regista di Non aprite quella porta come cartonato e che sul set fosse poi lui a dirigere le operazioni.

Come dicevamo: non è andata esattamente così, e anni di discussioni e rivelazioni tratteggiano un quadro più sfumato, nel quale Spielberg ha agito da direttore dei lavori e custode del cuore del film, e Hooper ha contribuito con le sue idee e ha girato in prima persona tutto il materiale. Più che un film horror di Spielberg in tutto tranne che nel nome, Poltergeist è una collaborazione alla pari tra due menti creative molto diverse tra loro, ma che hanno trovato nella storia di una casa infestata dagli spiriti del titolo l’ideale punto d’incontro tra la sensibilità exploitation e l’amore per la violenza e l’impatto di Hooper e l’eleganza, il gusto dell’avventura e la capacità di raccontare i personaggi con pochi puntualissimi dettagli di Spielberg.

Your friendly neighborhood horror movie

Inutile dire che il risultato è un capolavoro e un caso clamoroso di film horror per tutta la famiglia, che parla di legami familiari, dello spirito di sacrificio dei genitori e della voglia e necessità di sentirsi protetti e al centro del mondo della prole, dell’importanza di sentirsi un nucleo durante una crisi. Ma anche di cimiteri dissacrati e fantasmi vendicativi e di una minaccia invisibile, e di un mostro dall’aldilà che si chiama The Beast. Poltergeist è una compilation di tutte quelle volte che Spielberg ha innestato sequenze horror nei suoi film: dai Velociraptor in cucina di Jurassic Park ai cultisti strappacuori di Indiana Jones e il tempio maledetto alla tensione costante di Lo squalo, il tutto miracolosamente inserito nella cornice di un dramma familiare su una figlia scomparsa – per quanto scomparsa dentro la televisione di casa, rapita dai poltergeist che la infestano come conseguenza di un abuso edilizio.

È proprio la dimensione più intima, la scelta di raccontare l’orrore come lo vedono gli occhi di una normale e tradizionalissima famiglia americana invece che farcelo osservare da fuori e farci sottilmente godere delle loro tribolazioni, a rendere così efficace Poltergeist, al quale manca completamente la componente sadica di molti horror compresi alcuni di quelli di Hooper: il modo migliore per spiegarlo è affermare che il film è la storia di come la famiglia Freeling sconfigga un’infestazione di poltergeist, non di un’infestazione di poltergeist che perseguitano la famiglia Freeling. È in questo un film estremamente manicheo, una storia di bene assoluto vs male assoluto, ma è anche una storia nella quale il male è più forte e il comunque immancabile lieto fine si colloca in quota “esulto perché Davide ha sconfitto Golia”. Ed è anche particolarmente efficace nel manifestare questo male perché lo fa attraverso  situazioni domestiche – poche cose sono più spaventose dell’idea di una casa che si ribella ai propri proprietari e cerca di ucciderli –, spingendo in particolar modo su oggetti che fanno già paura per conto loro (pagliacci e bambole su tutti).

Poltergeistverse

Come moltissimi prodotti di successo di quell’epoca e non solo, Poltergeist ebbe due immancabili sequel, nessuno dei due all’altezza dell’originale (anche perché, con tutto il rispetto, Brian Gibson e Gary Sherman non sono Steven Spielberg e Tobe Hooper) e che non replicarono neanche il suo successo al botteghino. Le riprese del terzo, poi, furono funestate dalla malattia e rapidissima morte di Heather O’Rourke, il volto della protagonista Carol Anne, la bambina rapita dai poltergeist nel primo capitolo e unico personaggio ricorrente dell’intera trilogia; e da allora la serie è caduta nel dimenticatoio fino a venire improvvidamente resuscitata nel 2015 con una pessima versione prodotta ahilui da Sam Raimi.

Poco importa: il primo immortale capitolo rimane lì, intoccabile e inarrivabile, e una finestra su un mondo parallelo nel quale Spielberg non ha sfondato con i film per ragazzini e ha dedicato la sua intera carriera all’horror.

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