Mulan, 20 anni fa, anticipava di 10 anni il cinema femminista

Uscito in Italia 20 anni fa Mulan apriva una porta che ci ha messo altri dieci anni ad essere attraversata dal resto di Hollywood

Critico e giornalista cinematografico


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Quando verso la fine di Mulan la protagonista, ormai tornata in abiti femminili, si accorge che la catastrofe si sta per abbattere sul suo popolo, prova ad avvertire tutti senza essere ascoltata e Mushu, il drago-aiutante, con nonchalance le dice: “Sei una donna adesso, nessuno ti ascolta”, si materializza il momento più duro, frontale e sfacciato che la Disney (e quindi qualsiasi casa di produzione multimilionaria con un bacino di spettatori immenso), avesse mai impresso su pellicola fino a quel momento.

Arrivato tardissimo sul rinascimento Disney, Mulan appartiene più alla prima metà degli anni ‘90, che alla seconda, per temi, personaggi e storytelling. Soprattutto per audacia e spirito innovativo non andrebbe assimilato ai suoi coetanei (Hercules, Il Gobbo di Notre Dame, Tarzan e Le Follie Dell’Imperatore) ma molto di più ad Aladdin, La Bella e La Bestia, Il Re Leone, La Sirenetta e Pocahontas.


Come nelle migliori storie del Rinascimento Disney infatti qui si racconta di qualcuno che vuole realizzare sé stesso, che sogna qualcosa di più grande della realtà che vive (per quanto dorata) e che per trovare un’identità deve disobbedire all’autorità paterna. Là dove i genitori erano quasi sempre stati nella tradizione Disney un porto franco e la voce della ragione, nei film del Rinascimento sono l’opposizione principale (per quanto amorevole) alla felicità, vanno traditi e ingannati.
Rappresentano la tradizione nelle vite di personaggi che vivono la modernità.

Mulan ha una venerazione per il padre e così a dover essere tradita è la madrepatria, tutti quelli che ha intorno e che sono intenzionati a fare il suo interesse dovranno essere ingannati per perseguire i suoi sogni.
In questo film la tradizione è la struttura patriarcale mentre l’innovazione è un nuovo ruolo per la donna. Con un po' più di precisione ad essere conteso è proprio il gender, cioè l'appartenenza culturale ad uno dei due sessi, ed avviene tramite gli atteggiamenti che la tradizione prevede per una donna e consente ad un uomo. Quello che in modi diversi, con sfumature e intensità differente il cinema avrebbe cominciato a fare a fine anni 2000, circa dieci anni dopo e che sarebbe culminato nei film che vediamo ora, in cui sono le donne ad avere i ruoli centrali nei blockbuster, almeno a partire da Hunger Games.
La trama di Mulan in realtà doveva essere molto semplice prima che ci si mettessero all’opera 28 sceneggiatori (si veda la scheda imdb) e per fortuna a capo del progetto era stato messo Chris Sanders, da che sembrava destinato a lavorare su Il Gobbo di Notre Dame. Sanders, non a caso, aveva già lavorato alla sceneggiatura di La Bella e La Bestia, Aladdin e Il Re Leone ma forse anche per quello non amava per nulla la piega canonica e già sentita che la storia stava prendendo. Non potendo di certo rivoluzionare il progetto gli ha allora impresso una forza cinetica verso l’esterno, cioè invece che tenere la storia di una principessa che sogna di essere altro nell’alveo del canone, l’ha spinta verso i confini di quel che si poteva dire e mostrare, dandogli un vero e autentico potere femminista. Femminismo infatti non è scrivere una storia con una protagonista donna, né trattare i personaggi femminili con il medesimo rispetto e la medesima importanza di quelli maschili. Femminismo è una forma di attivismo che prevede di adoperarsi per cambiare la mentalità nella direzione di una maggiore considerazione della donna. Mulan è femminista perché cerca di mostrare al pubblico cosa accade ad una donna competente in un mondo di maschi e perché sbatte la faccia degli spettatori contro quella battuta di Mushu. Pronunciata con aria così ordinaria, normale, intollerabile.

Chris Sanders dopo Mulan sarebbe poi andato a scrivere e dirigere Lilo & Stitch, concludendo la sua collaborazione con la Disney col botto, almeno artisticamente parlando. Il film meno convenzionale e più demenziale di tutta quell’era non rialzò gli incassi in calo. Questo spinse Sanders altrove per realizzare dopo 8 anni Dragon Trainer per la Dreamworks, in coppia con il fido Dean DeBlois anch’egli all’opera già su Mulan (e che poi ha proseguito la saga di Dragon Trainer da solo senza però eguagliare il tono fantastico del primo episodio e le sue idee devianti di personaggi mutilati), e poi a realizzare I Croods (altra follia con personaggi dal character design oltre ogni normalità).

Rivisto oggi Mulan ha tutti gli stilemi più classici della Disney di quell’era (dall’aiutante magico al montaggio musicale di miglioramenti e allenamenti, fino ai burocrati di stato) ma anche un ruolo incredibilmente marginale del protagonista maschile e uno inusualmente centrale del look della protagonista, caratteristica che sarebbe tornata solo a partire da Rapunzel per poi trovare l’apoteosi in Frozen. Già in Mulan infatti come la protagonista si presenta (costumi, trucco e parrucco) è uno dei modi in cui il suo carattere e la sua evoluzione è spiegata al pubblico. Un taglio di capelli non è un vezzo, non è una questione di solo gusto, è uno strumento per comunicare.
Venti anni fa Mulan parlava già la lingua del cinema che la Disney ha iniziato a fare nel 2010.

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