Mike Nichols, la fonte dell'unica grande rivoluzione di Hollywood
Nome meno noto di altri ma autore di film cardinali come pochi. A Mike Nichols dobbiamo l'inizio della svolta realista di Hollywood, la scoperta dei volti strani, complessi, non usuali
Nichols apparteneva al cinema tanto quanto al teatro, il suo nome non è tra i più noti (ma i suoi film si: Il laureato, Una donna in carriera, Conoscenza carnale, Closer...), lo stesso ha cambiato la maniera in cui si concepiscono i film assieme ai pionieri del nuovo cinema americano. Sul grande schermo non faceva film, faceva incursioni: arrivava, cambiava e tornava a fare teatro per qualche altro anno. Per farlo usava prevalentemente gli attori, a tutto tondo, li sceglieva, li cambiava, li plasmava e rivoluzionava quel che pensavamo del loro corpo proprio grazie alla sua esperienza teatrale, il luogo in cui un attore non è una serie di inquadrature (un primo piano, un piano americano, un piede, una mano ecc. ecc.) ma un blocco unico in cui le gambe contano quanto i capelli.
Il ruolo del protagonista era destinato a Robert Redford, allora un giovane molto in linea con la tradizione hollywoodiana: bello, bravo, convenzionale. Nichols invece volle Dustin Hoffman, sconosciuto, brutto e scricciolo e gli insegnò personalmente a recitare. Lo stesso vale per Anne Bancroft, la prima MILF di sempre, inadatta alla parte per gli standard dell’epoca, troppo vera, troppo sexy, troppo proibita. Dopo che Il laureato dimostrò che si poteva incassare anche con queste idee poterono arrivare (anzi diventarono di moda) i De Niro, gli Stallone, i Pacino e tutta quella schiera di attori protagonisti non particolarmente belli, con lineamenti non solo caucasici ma tremendamente reali. L’invasione delle persone vere.
Erano gli anni in cui c’era terreno fertile per cambiare, quelli in cui a registi di successo e poco convenzionali come lui veniva data gran fiducia, libertà e mezzi. In quel periodo Nichols spaziava e rivoltava.
Nel decennio successivo invece si dedicò a film molto diversi cominciando un’altalena clamorosa tra lungometraggi che hanno segnato la storia e altri dimenticabilissimi, scialbi già a partire dal soggetto. Con Una donna in carriera per primo prendeva atto del nuovo ruolo della donna, mostrava le ingiustizie del sistema degli yuppies e metteva in scena ragazze dalla sessualità spregiudicata i contesti di lusso prima di Sex and the city, dimostrava che Sigourney Weaver, a saperla usare, non era solo buona per film d’azione, che quel suo fisico imponente aveva anche altre ragioni d’essere, che il mondo del cinema più convenzionale che ci sia (la commedia romantica) poteva essere animato anche da volti e corpi curiosi come il suo e quello di Harrison Ford. Con lui ha poi realizzato uno dei suoi molti film “convenzionali”, A proposito di Henry.
È passato attraverso gli anni ‘90 con follie tipo Wolf - La belva è fuori (Jack Nicholson mascherato da lupo però era un'idea forte) e Piume di struzzo (il remake di Il vizietto), operazioni senza ambizioni per anni in cui le sue idee non trovavano spazio sul grande schermo. Invece nel cinema dell’ondata di indipendenti degli anni 2000 sembrava avesse ricominciato a vivere. Prima I colori della vittoria e poi Closer, in cui rilanciava la carriera adulta di Natalie Portman e faceva scoprire al cinema americano Clive Owen. Ancora una volta il sesso, ancora una volta una maniera diversa di vederlo e raccontarlo per anni in cui non esistono più i tabù.
Il suo ultimo film è La guerra di Charlie Wilson, uno di quelli convenzionali ma in questa categoria forse il più riuscito. Unisce Tom Hanks a Julia Roberts sotto l’egida di Philip Seymour Hoffman (di cui ha scoperto il talento camaleontico) e gli fornisce il tamburo battente di sottofondo che è lo script di Aaron Sorkin. Il risultato è un fluidissimo thriller di guerra che abbatte la barriera del “rosa” per farlo entrare senza scadere nella melassa.
Ci mancherà.