Mortal Kombat è un cult a cui manca solo il sangue

Mortal Kombat di Paul W.S. Anderson è un adattamento che va a un passo dalla perfezione e viene bloccato dal PG-13

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Mortal Kombat è su Netflix

Mortal Kombat di Simon McQuoid è finalmente disponibile e il fandom ha cominciato le classiche discussioni sul valore dell’opera e sul confronto con gli adattamenti precedenti; è quindi il momento perfetto per tornare a parlare del film da cui tutto ebbe inizio – almeno al cinema –, il Mortal Kombat del 1995 diretto da un allora quasi esordiente Paul W.S. Anderson. Un film che al tempo, curiosamente, convinse più la critica del pubblico – magari non della massa critica del pubblico, visto che gli incassi furono decisamente soddisfacenti, ma sicuramente del già citato fandom, che vide in Mortal Kombat un tradimento di tutto quello che rendeva la saga quello che era. O per dirla più semplice e senza girarci troppo intorno: nel 1995, chi amava Mortal Kombat (tra cui si annovera anche chi scrive) rimase deluso dalla totale assenza di sangue e dalla violenza spesso solo suggerita e quasi mai esplicitata con quel gusto grandguignolesco ed eccessivo che aveva permesso a un videogioco meccanicamente inferiore di fare concorrenza nell’immaginario collettivo al ben più solido franchise di Street Fighter.

Avevano (avevamo) ragione loro, su questo non c’è dubbio: quale che sia il vostro giudizio su Mortal Kombat di Paul W.S. Anderson, siamo sicuri che concorderete con noi sul fatto che il film sarebbe stato più bello se il regista inglese non fosse stato soffocato dal PG-13 ma fosse stato lasciato libero di sfogare tutto il suo sadismo creativo. È una faccenda oggettiva, per quanto orrenda e fuori luogo suoni sempre questa parola: Mortal Kombat è definito anche dalla sua collezione di morti orripilanti, e dalla varietà e natura estrema e quasi caricaturale di suddette morti. Mortal Kombat senza decapitazioni e sbudellamenti è come Saw senza le trappole mortali, e sul film di Paul W.S. Anderson grava il peso di quest’assenza. Lo stesso Anderson, che ha sempre difeso il suo film e ancora oggi ne è innamorato, racconta, nei contenuti extra dell’edizione home video di Punto di non ritorno, un aneddoto che dice molto sulla questione: al tempo il regista rifiutò X-Men preferendo lo script di Philip Eisner perché aveva voglia di fare un film violento dopo l’esperienza deludente (almeno da quel punto di vista) di Mortal Kombat.

Sonya Blade

Il fatto è che il prodotto andava venduto a un pubblico più ampio di quello che nel 1995 sarebbe andato al cinema a vedere un Rated-R, e il risultato è il paradosso di un film su Mortal Kombat senza neanche una goccia di sangue. È uno dei segreti del successo della versione di quest’anno: un’operazione nostalgica, saldamente ancorata agli anni Novanta sotto quasi tutti i punti di vista, ma che finalmente si può permettere di inscenare vere fatality e di far sentire il peso dei colpi e il rumore delle ossa che scricchiolano. Paul W.S. Anderson si vide invece costretto a restituire le atmosfere del videogioco in versione monca – ed è per questo che il suo Mortal Kombat è un mezzo miracolo, ed è diventato un film di culto.

C’è prima di tutto la scelta di puntare tantissimo, come da tradizione andersoniana, sull’impatto visivo, su set barocchi e stracolmi di dettagli, e soprattutto in grado di trasmettere la sensazione di trovarsi in un luogo altro, dove succedono cose che nel resto del mondo sono considerate impossibili. Mortal Kombat è girato in parte in studio e in parte in location, in Tailandia: questa, per esempio, è la spiaggia di Phra Nang, che nel film diventa la spiaggia dell’isola di Shang Tsung dove i partecipanti al Mortal Kombat sbarcano all’inizio del film. In questo la versione andersoniana batte quella di McQuoid dieci a zero: dove il Mortal Kombat di oggi è ambientato quasi esclusivamente sulla Terra, in luoghi tutto sommato noiosi con rare eccezioni, quello del 1995 si svolge quasi interamente sull’isola, un luogo al confine tra due realtà e una porta sull’Outworld.

Reptile

Ovviamente non tutto questo set dressing è invecchiato benissimo, ma lì la colpa è tutta del fatto che stiamo parlando di un film del 1995 che se l’è dovuta cavare con la Cgi del 1995. Che a dire la verità finché rimane sullo sfondo mostra i suoi anni solo se ci si fa davvero attenzione, altrimenti fa ancora oggi il suo onesto lavoro. Il problema è quando gli effetti sono in primo piano: l’arpione di Scorpion, per esempio, che per lo meno conserva un minimo di fisicità e un certo fascino quasi pupazzesco, e soprattutto il povero Reptile, lui sì che avrebbe bisogno di una versione remaster. Come ne avrebbero bisogno alcuni dei protagonisti, a dire la verità: il cast di supporto si divide tra caratteristi di ferro e grandi nomi coinvolti per portare carisma con la loro sola presenza (Christopher Lambert su tutti, che si diverte un sacco a fare Rayden), ma il trio protagonista composto da Robin Shou, Linden Ashby e Bridgette Wilson è spesso rivedibile, e rimane la curiosità di sapere come sarebbe stato il personaggio di Sonya Blade se a interpretarlo fosse stata la prima scelta di Anderson, cioè Cameron Diaz (che dovette rinunciare a causa di un infortunio al polso).

Ma tutti questi dettagli passano in secondo piano di fronte a una semplice considerazione: Paul W.S. Anderson è un fan delle arti marziali e dei film di Hong Kong, e si vede. Al netto dell’assenza di plasma, i combattimenti di Mortal Kombat sono ancora oggi tra i migliori che si siano mai visti nel genere per messa in scena e coreografie, e soprattutto negli 1v1 valgono da soli il prezzo del biglietto (le cose si fanno più confuse nelle scene di massa, che però sono poche e compensano il caos eccessivo con l’impatto frontale). Per ogni one-liner supposta divertente che cade nel vuoto perché Johnny Cage ha meno carisma di Shang Tsung ci sono tre combattimenti che incollano ancora oggi allo schermo, e che hanno peraltro anticipato di qualche anno la passione americana per il wire-fu che esploderà definitivamente con Matrix.

Peccato quindi, davvero peccato, che non ci siano abbastanza teste strappate con tutta la colonna vertebrale. Ma è solo una macchia in quello che si è conquistato a buon diritto il titolo di cult.

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