Monsters, quando Gareth Edwards lavorava in cameretta
Monsters, il debutto al cinema di Gareth Edwards, è un film minuscolo e forse proprio per questo tremendamente efficace
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Buona parte del fascino di Monsters sta quindi in questo suo look da cinema da guerriglia: tanta camera a mano, tante inquadrature forzate dalla situazione e quindi paradossalmente spontanee, solo luce naturale, e i (tanti) sprazzi di bellezza che sono figli anche del momento giusto della giornata, della capacità del regista di cogliere l’attimo e la luce giusta. C’è però poi tutto il lavoro che Edwards ha fatto nella sua metaforica cameretta con il suo metaforico MacBook: tutti i luoghi usati come set vengono arricchiti e trasformati nei dintorni (e nell’interno) della classica Infected Zone, una zona di quarantena che coincide suppergiù con il Messico e che è l’epicentro della più bizzarra invasione aliena della fantascienza moderna.
Questo perché i “mostri” di Monsters non seguono il protocollo classico dell’invasione: non sono arrivati sulla Terra, sono stati portati qui contro la loro volontà, e non sono quindi veri invasori in senso militare, ma una specie invasiva in senso biologico, prelevata dal suo ecosistema e sganciata in un altro, nel quale per loro fortuna riescono a sopravvivere, e per nostra sfortuna a prosperare. Anche fermandosi alla superficie della situazione ci sarebbero centinaia di spunti interessanti: gli alieni non sono cattivi, non hanno neanche un’etica intesa in senso umano, sono delle bestie che fanno del loro meglio per sopravvivere in un ambiente nuovo e presumibilmente ostile. È corretto sterminarli solo perché quando li disturbiamo provano a difendersi? Monsters suggerisce più volte che il vero problema non siano i mostri in quanto tali, ma il fatto che gli Stati Uniti non la smettono di bombardarli e provare a soffocarli con gas tossici.
Considerato poi che Monsters è un viaggio della speranza dal Messico agli Stati Uniti attraverso la zona infetta e fino al muro di separazione che è stato costruito, lato USA, tra i due Paesi, e che i due protagonisti vengono accompagnati dalla versione anti-aliena degli attuali coyote, non è difficile vederci anche una o più metafore, che nel 2009 erano ancora opinioni e profezie e che nel 2023 hanno per lo meno cominciato a prendere vita, dopo che il concetto di “muro tra USA e Messico” è diventato talmente importante da rivelarsi dirimente in almeno un’elezione per la presidenza degli Stati Uniti.
Infine, Monsters è un film con pochissima azione, di paesaggi, atmosfere e soprattutto della relazione tra i due protagonisti, sconosciuti quando si incontrano per la prima volta, chissà cosa una volta tornati negli Stati Uniti. C’è chi al tempo definì questo film “Lost in Translation con gli alieni” e tutto sommato la definizione è adeguata: Edwards sa quando e come usare i silenzi e il fatto che gran parte dei dialoghi siano improvvisati o semi-improvvisati sposta tutto il film in territori quasi mumblecore (e Whitney Able in particolare borbotta tantissimo). Silenzi, quindi, pause, alieni, metafore: converge tutto nel poetico finale, che può essere letto e interpretato secondo ciascuna di queste tre lenti, e che certifica in modo definitivo come Monsters sia uno dei film di fantascienza più interessanti dell’ultimo ventennio almeno (anche più di The Creator, ma questo è un altro, triste discorso).