MONSTERS e I Fratelli Menendez, come cambiano Erik e Lyle dalla serie al documentario: dov'è la verità?
La serie MONSTERS – La storia di Erik e Lyle Menendez e il documentario I Fratelli Menendez offrono due visioni contrastanti su un delitto che ha sconvolto l'America
Premessa
Abbiamo visto su Netflix una serie e un documentario. La serie si intitola Monsters – La storia di Lyle ed Erik Menendez. Il documentario? I Fratelli Menendez. Fiction e non-fiction. Come già era capitato in passato ai tempi di Jeffrey Dahmer e non solo. Stesso soggetto: l'agghiacciante omicidio perpetrato da Erik e Lyle Menendez il 20 agosto 1989. Due approcci diversi da parte dei realizzatori. Prima di provare ad analizzarli ricordiamo quanto questa vicenda abbia avuto a che fare con il cinema e quindi l'immaginario collettivo legato al prodotto audiovisivo statunitense compresa anche la musica. Tanti i collegamenti con l'arte visiva dentro questo fatto di cronaca nera.
La notte dell'omicidio, i fratelli assassini si organizzarono per avere come alibi, che non reggerà, la visione insieme del Batman (1989) di Tim Burton. Quando l'omicidio è stato compiuto, e i figli fingono di piangere il loro influente papà, diranno di lui che era: “Influente come Spielberg e Scorsese”. Si scoprirà presto che Erik e un amico, colpiti dalla visione di Vip omicidi club (1987) con Judd Nelson, scrissero insieme un copione in cui si progettava l'omicidio di genitori influenti. Lyle si vestirà durante Halloween come Tom Cruise in Cocktail (1988) ma dei bimbi non lo riconosceranno. Infine, quando stanno già in galera, diventeranno gli zimbelli d'America grazie a uno sketch del Saturday Night Live con John Malkovich che interpreta Lyle Menendez. Ora passiamo agli approcci. Qualcuno deride, schernisce e prende in giro i baby killer all'epoca di 21 (Lyle) e 19 (Erik) anni. Chi è che li giudica mostri?
Ryan Murphy e Ian Brennan
Sono loro due i più critici. Gli showrunner di MONSTERS: la storia di Lyle ed Erik Menendez utilizzano un interessante approccio ciclotimico nei loro 9 episodi dello show sulla bocca di tutti. La serie è come andare sulle montagne russe. Nei primi episodi i due fratelli, interpretati con grande intensità dagli strepitosi Cooper Koch (Erik) e Nicholas Alexander Chavez (Lyle), vengono ritratti come degli imbecilli in perenne stato di agitazione e mascolinità tossica. Soprattutto Lyle. Osservate le facce: costantemente contorte e distorte in espressioni iperboliche, esclamative e teatrali. Perennemente urlanti e/o piangenti. L'estremismo espressivo della loro recitazione, per Murphy e Brennan, deve entrare quasi in simbiosi con l'omicidio con fucili shotgun preso paro paro da un possibile film con Arnold Schwarzenegger. È tutto parossistico. D'altronde conosciamo Murphy e la sua poetica. Per questo stakanovista dell'audiovisivo l'America è un grande palcoscenico. Per lui non c'è mai differenza tra realtà e finzione. Sia quando si è inquadrati che quando si sta chiusi nelle camerette.
Non c'è niente da fare: Murphy e Brennan, nonostante aver mostrato in più di un'occasione un José Menendez possibilmente “orco”, prediligono nettamente la coppia di marito e moglie cubano-americana di costruttori del sogno Usa rispetto ai rampolli viziati. La prova di Javier Bardem nei panni di José e Chloe Sevigny in quelli di Kitty conferma il maggiore occhio di riguardo nei loro confronti rispetto alla prole demente. Con tutte le loro tensioni tra marito e moglie (lui ha avuto un'amante fissa), José e Kitty sono un duo maturo e resistente che nell'ultima scena in barca si chiarisce e mostra segni di tenerezza reciproca. In questo flashback conclusivo di gita famigliare, Erik e Lyle (prima abbiamo visto quest'ultimo farsi fregare in carcere da una finta fidanzata come un vero allocco) chiudono la serie progettando freddamente la mattanza.
I realizzatori sono chiari. Qualcun altro non la pensa così.
Alejandro Hartmann
Lyle non ha più il parrucchino. Erik riconosce tutti gli sbagli senza piagnucolare. Li vediamo in foto ormai 50enni. Li sentiamo al telefono con la voce della pacata rassegnazione. Nel documentario I Fratelli Menendez i due parlano, per la prima volta dopo 30 anni, dal carcere dove stanno scontando la pena. Il documentario è più breve rispetto alla serie: sono 116 minuti di non-fiction contro i circa 500 di fiction.
Cambia tutto. E non troppo attraverso Erik e Lyle quanto piuttosto attraverso i cugini che rivediamo testimoniare ai loro processi negli anni '90 che portarono alla sentenza di condanna nel 1996. Tutto il bel documentario di Hartmann non è concentrato sul rielaborare le immagini di quei dibattimenti che vennero ripresi da Court Tv. Invece i realizzatori vogliono concentrarsi su come la percezione di Erik e Lyle Menendez sia cambiata negli Usa dal 1989 al 2023. È cresciuta l'attenzione nei confronti degli abusi domestici e gli uomini sono ora convinti che anche dei maschietti possano essere violentati in famiglia. Si enfatizza infatti nel doc un ricordo shock: metà della giuria all'epoca, ovvero la parte composta da maschi, non ritenne possibile che Lyle ed Erik potessero essere stati molestati dal padre José. Incredibile con i parametri di oggi ma, effettivamente, ieri accadde.
Ecco dunque che il documentario I Fratelli Menendez presenta una diversa immagine di Erik e Lyle rispetto a Monsters. Meno pompata, meno ridicola, meno da bambocci che vogliono imitare Tom Cruise. Inoltre ci si concentra molto di più rispetto alla serie di Murphy e Brennan circa quelle deposizioni dei cugini (specialmente Diane Vandermolen) che aggiungevano un punto di vista ulteriore, oltre quello di Erik e Lyle, circa le possibili violenze subite dai due in casa Menendez. Non testimoni diretti ma indiretti di lamentele dei fratelli in tenera età. Basta? Per Hartmann pare di sì.
Conclusioni
La presenza sottolineata di Diane Vandermolen nel documentario di Hartmann funziona come il testimone terzo in un thriller metafisico stile Shyamalan. Che vuol dire? Se c'è un altro punto di vista oltre quello dei protagonisti, allora forse non è tutto frutto dell'immaginazione, o meschinità, di Erik e Lyle Menendez. Hartmann ci crede. Murphy e Brennan sono quantomeno più scettici. Perché? Azzardiamo un'ipotesi: Murphy, icona, attivista e simbolo della cultura LGBTQ americana, è come se, pur riconoscendo la verità degli abusi subiti (lo stile dell'episodio 5), in ultima analisi non riconosca l'irrimediabilità della situazione in cui versavano Erik e Lyle Menendez. Per lui e Ian Brennan, nonostante sofferenze e atroci traumi, i fratelli avevano tutti gli strumenti culturali, sociali ed economici per compiere un'altra scelta. Dovevano in relazione alla loro auspicabile autonomia esistenziale e sessuale (soprattutto Erik, descritto nella serie come omosessuale), optare per un'alternativa all'omicidio dei genitori. Mentre invece Hartmann li vede più come soggetti schiacciati non solo da un padre “orco” ma anche da una società maschilista e machista che li aveva condizionati fin dalla nascita.
Questa, almeno, è la nostra elucubrazione ripensando alle scelte della serie e del documentario. Murphy e Brennan responsabilizzano l'individuo. Hartmann conferma come, sulla nostra singolarità, prevalga il contesto storico e sociale.