Monsters & Co. quando 20 anni fa la Pixar inventò il pelo, il finale aperto e sé stessa

Dopo 3 film che per versi differenti non erano andati a regime, Monsters & co era il primo in cui la Pixar iniziava a sviluppare il metodo che l'ha resa grande

Critico e giornalista cinematografico


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Il quarto film della Pixar, Monsters & Co., è il primo vero tentativo di usare la computer grafica per fare, con l’animazione, un film dal vero. I due Toy Story e A Bug’s Life, erano due cartoni animati a tutti gli effetti. Nonostante l’universo di piccole citazioni, l’uso di inquadrature e soluzioni di regia che l’animazione a mano non poteva conoscere e che invece venivano dritte dal cinema dal vero, erano comunque cinema d’animazione in tutto e per tutto. Monsters & Co. invece è una commedia da ufficio anni ‘50/‘60, il genere di film che il cinema americano produceva molto in quegli anni e tutto lo stile risponde a quell’impianto.

È vero fin dai titoli di testa, animati in 2D con un design chiaramente anni ‘60 che sembra prelevato da La carica dei 101, e uno score di Randy Newman che lavora proprio sul jazz che veniva utilizzato all’epoca per le colonne sonore più frizzanti. Ma poi anche le figure di Mike Wazowski e James P. Sullivan detto Sulley sono modellate sul fenotipo impiegatizio e alto borghese dell’epoca, personaggi da metropoli (dettaglio enfatizzato dalla parlantina e dall’energia East Coast di Billy Crystal) che fanno una vita da metropoli, con appuntamenti, locali, prestazioni e un boss in doppiopetto da accontentare. Anche il villain è il nemico interno all’ufficio, la persona che vuole fare più carriera e per riuscirci ha intenzione di screditare la concorrenza. Addirittura il titolo originale, Monsters Inc. fa riferimento a Murder Inc, commedia del 1960 tradotta in italiano con Sindacato assassini.

La Pixar investe sul proprio mondo e sulla tecnologia

È il mondo pixarizzato, quell’idea sempre presente nei film dell'età d’oro dello studio che vuole che la storia sia ambientata in un mondo come il nostro solo tematizzato. I giocattoli vivono in un mondo in cui fanno tutto ma con gli oggetti della camera di un bambino, così è il mondo delle formiche di A Bug’s Life, quello delle auto di Cars o l’oceano di Nemo. Questa volta il mondo dei mostri in cui tutto funziona come nel nostro, solo con criteri di bellezza al contrario, è la New York degli anni ‘60. Lì viene inserita una facile idea di commedia: due travet di un ufficio devono nascondere un essere che potrebbe sconvolgere tutto e nel farlo scoprono che l’impalcatura del loro mondo è una menzogna del capitale (in un finale di puro socialismo la fabbrica diventerà di proprietà degli impiegati stessi e tutto sarà una festa di benessere e condizioni di lavoro non più spaventose ma felici).

monsters & co kitty

Ma Monsters & Co. segnava anche il primo momento in cui la Pixar aveva potuto cominciare ad investire seriamente in ricerca e sviluppo. Fare Toy Story era stata un’impresa, A Bug’s Life era una sistematizzazione della catena di produzione e Toy Story 2 fu un incubo, fatto, buttato e rifatto da capo in pochissimi mesi (cosa che si vede nell’essenzialità della scrittura ma che poi gli dà anche un ritmo indemoniato). Monsters & Co. invece era partito con la produzione nel 1997, aveva fatto il consueto ciclo di 4-5 anni dalla scrittura alla sala e aveva potuto godere del tempo giusto per affinare gli strumenti. La Pixar sviluppava da sé internamente il software per animare e quindi lo creava a seconda delle proprie esigenze con obiettivi mirati che in questo caso furono trovare un modo per rendere il pelo dei mostri in maniera convincente. Quello era il dettaglio che avrebbe dato credibilità al tutto. Se si riguardano oggi le scene, ci appare un film dall’animazione in computer grafica ancora primordiale ma con un ottimo pelo. È perché aggrappandoci a quello riusciamo a sentire la consistenza di Sulley.

monsters & co pelo

Come sempre tuttavia una soluzione calza più problemi. In Monsters & Co. per la prima volta ogni personaggio aveva un animatore apposito e il pelo di Sulley aveva proprio un software dedicato. Si tratta di 2 milioni di singoli peli che devono reagire tutti insieme sia ai movimenti del personaggio, che al vento che alla luce, proiettando ombre gli uni sugli altri in modi coerenti. Il software creato apposta era così versatile da poter funzionare anche per la gestione di altri corpi che si muovano in armonia ad altri, come ad esempio gli abiti di Boo, facendo fare un salto a tutto il film. Senza contare che poi la scena finale delle porte con tutto il movimento che include ha richiesto da sola più potenza di rendering (il momento in cui tutte le componenti di un’immagine in computer grafica create separatamente vengono assemblate) che tutti i film precedenti messi insieme.
È in un certo senso il momento in cui la Pixar ha iniziato a fare la Pixar, non solo scrivere grandi storie ma spingere in avanti il proprio settore, non accontentarsi, creare di più e volere di più per raggiungere il cinema dal vero.

https://www.youtube.com/watch?v=zhYdVs7onMg

Anche in Monsters & co. l'audiovisivo è l'unico mezzo per conoscere davvero il mondo e sé stessi

Nonostante Toy Story fosse già un film dalla scrittura creativa è con Monsters & Co. e Pete Docter che alcuni dei tratti cruciali dello studio diventano evidenti. In primis la poetica del perdersi (che viene più che altro da Andrew Stanton ma come noto per i primi film tutti i registi fondatori contribuivano alla creazione di tutti i film), cioè il fatto che nei film Pixar classici esiste sempre un momento in cui i personaggi finiscono in un luogo da cui è impossibile tornare indietro e tutto sembra davvero perduto, il momento in cui il pubblico viene convinto che non ce la faranno mai a ricongiungersi tra di loro. È quando Woody e Buzz rimangono alla pompa di benzina ma ancora meglio quando Sulley e Mike finiscono tra le nevi e poi sarà il perdersi di Nemo, l’inceneritore di Toy Story 3 o il luogo in cui si viene dimenticati di Inside Out. È un trucco o meglio un modo di barare con la scrittura, perché non ci viene detto ogni volta un dettaglio che risolverà tutto, non lo possiamo proprio intuire e la scoperta apre il gran finale. Qui siamo informati del fatto che quell’area innevata appare lontano da ogni civiltà e invece quando serve scopriamo che ci sono delle abitazioni a valle.

Ma non solo: c’è anche l’idea ricorrente nella Pixar che la realtà è ingannevole e piena di menzogne, che non è abbastanza per giungere alla verità, e solo l’audiovisivo ci mostra le cose come stanno realmente. Ricreare una stanza in un set per l’allenamento e riprendere la vera reazione del grande capo, sarà un modo per far vedere a tutti chi lui sia e cosa voglia fare. Certo già era avvenuto in Toy Story 2 che Woody apprendesse la sua natura da una pubblicità su un televisore e poi capiterà molte altre volte che guardando uno schermo i personaggi Pixar capiscano cosa succede, che giungano ad un livello di consapevolezza su di sé o sugli altri che la realtà non consente. Come in Wall-E quando addirittura Eve ha bisogno di rivedere proiettati i suoi stessi ricordi per comprendere davvero l’amore di Wall-E o come Gioia quando vede le immagini nelle bolle di Tristezza e ne comprende l’importanza.

Tutto insieme e tutto retto da un’idea di puro cinema per il finale, l’inquadratura del sorriso di Sulley al solo sentire la voce di Boo (una trovata che sembra uscito da Dov’è la casa del mio amico di Abbas Kiarostami) aveva inventato quello che la Pixar sarebbe stata per altri 15 anni almeno, una forma di unione nuova dell’eterna arte di raccontare con le inedite potenzialità dell’animazione, cinema di sconfinata fiducia nella tecnologia, nel video e negli esseri umani, siano essi rappresentati da ratti, automobili, giocattoli, robot, mostri, pesci o dai loro stessi sentimenti.

monsters & co finale

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