Mission: Impossible III salvò il franchise

Mission: Impossible III vide il ritorno all’azione di Ethan Hunt dopo sei anni, e fece da trampolino verso il vero successo del franchise

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Questo speciale fa parte della rubrica Tutto quello che so sugli stunt l’ho imparato da Mission: Impossible

Dopo due episodi di enorme successo, Mission: Impossible III si rivelò essere, inaspettatamente, il primo punto di svolta del franchise, e il su primo vero momento di crisi. A un certo punto, circa tra il 2002 e il 2005, sembrava che la saga con Tom Cruise avrebbe interrotto la sua corsa, e che non esistesse un modo per rimetterla in carreggiata. Avevano già abbandonato la regia in due (prima David Fincher, poi Joe Carnahan), e lo stesso Cruise non sembrava più entusiasta della prospettiva di tornare a interpretare Ethan Hunt per vari motivi, tra i quali si annoverava anche un episodio di South Park.

Sembrava che Mission: Impossible III fosse destinato a un development hell infinito, e la saga a sparire dai radar. Poi la produzione individuò un tizio che si era fatto notare con le sue serie televisive, e che non vedeva l’ora di mettersi alla prova con un film. Si chiamava J.J. Abrams e, non importa quale sia il vostro giudizio su di lui e sulle sue opere successive, con questo film salvò il franchise di Mission: Impossible e, soprattutto, piantò i primi semi della sua metamorfosi, che la porterà a diventare una saga vera e propria, con personaggi ricorrenti e una trama orizzontale che va oltre i confini dei singoli film.

Avendo esperienza televisiva, J.J. Abrams sa come catturare l’attenzione in pochi secondi. E infatti Mission: Impossible III si apre con il più classico dei cold open da serie TV, presentando la scena finale, il climax del film, ma decontestualizzata e incomprensibile, trasformando così la visione in un grande gioco di “come siamo arrivati fin lì?”. Serve per farci drizzare le orecchie e anche per comunicarci fin da subito che la posta in palio sarà alta. E per confondere ulteriormente le acque, detta posta è un personaggio che non avevamo mai visto prima, ma che è chiaramente di importanza capitale per Ethan Hunt.

Mission: Impossible III capitalizza alla grande sulla pausa di sei anni che lo separa dal film precedente. Che cosa è successo a Ethan Hunt in questi sei anni? E se ha vissuto altre grandi avventure di spionaggio, perché non ce le fate vedere? La risposta è: non le ha vissute, perché si è tranquillizzato e soprattutto ha trovato l’amore. Fa un po’ specie vedere il terzo film di una saga che già si apre con il protagonista in pensione e costretto dalle circostanze a tornare in azione, una soluzione che di solito arriva intorno al quinto, ottavo, tredicesimo capitolo di un franchise. Ma Mission: Impossible ha sempre avuto fretta.

Ce l’ha anche nelle oltre due ore di questo terzo capitolo, nel quale Ethan Hunt si sposta da un setpiece all’altro per far succedere cose, spesso esplosioni, all’inseguimento di un misterioso oggetto chiamato “Rabbit’s Foot”, che potrebbe o non potrebbe essere una pericolosissima arma biologica o informatica. Rispetto ai ritmi languidi di Mission: Impossible II, il III è un turbine di eventi, e un’ottima introduzione a quello che diventerà la saga da lì in avanti. Il film ripesca vecchi volti noti e sempre benvenuti (Ving Rhames su tutti) e comincia anche a introdurre con una certa decisione l’idea della “squadra” – di un Ethan Hunt che non più solo un lupo solitario dello spionaggio ma a capo di un gruppo di specialisti che sono poi la sua “famiglia” acquisita, nella più classica tradizione del cinema di questi anni.

In particolare, Mission: Impossible III introduce un personaggio che diventerà un habitué della saga: parliamo del Benji di Simon Pegg, che insieme a Rhames è l’unico che interpreterà tutti i film della saga da qui in avanti. Nella lista non c’è neanche Michelle Monaghan, nonostante la sua Julia sia uno dei personaggi decisivi del film in cui compare per la prima volta e anche del resto del franchise. Julia, la fidanzata-poi-moglie di Ethan Hunt, è il suo necessario legame con il mondo reale, quello che gli mancava nei primi due film e che serve per ancorarlo a una narrazione più diffusa e ambiziosa. Certo, ci viene presentata come la classica principessa in pericolo; ma nel corso del film ha modo di elevarsi oltre l’archetipo, sviluppare una personalità e soprattutto farci affezionare.

Curiosamente, o forse perché J.J. Abrams era un debuttante e non voleva rischiare di rovinare il suo primo set con un incidente, Mission: Impossible III fa un passo indietro rispetto al precedente in termini di follia. Ci sono più sparatorie, più inseguimenti e più azione, ma non c’è nulla che possa rientrare nella classifica dei migliori dieci stunt di Tom Cruise. La sequenza che funziona meglio è anche quella che richiede meno acrobazie: il rapimento in Vaticano di Owen Davian (un eccezionale e mai troppo compianto Philip Seymour Hoffman), in piena tradizione heist movie, è una delizia per come riesce a seguire l’azione intrecciata di cinque personaggi diversi. È un capolavoro di montaggio e coreografia, ma è anche la cosa meno Mission: Impossible del film.

Poco male: il film che non doveva neanche uscire incassò quasi 400 milioni di dollari – meno del precedente, ma pur sempre una cifra più che dignitosa. Abbastanza da garantire un altro sequel, prodotto sempre con la stessa pazienza, uscito cinque anni dopo III e primo film della saga ad avere un titolo e non essere semplicemente numerato. Ne parleremo tra una settimana.

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