Mission: Impossible è un magnifico pezzo di archeologia

Mission: Impossible è un gran film di spionaggio che dimostra la sua età ogni volta che ci fa vedere un po’ di tecnologia

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Questo speciale fa parte della rubrica Tutto quello che so sugli stunt l’ho imparato da Mission: Impossible

C’è una scena nel primo Mission: Impossible che rivista oggi rischia di tracciare un solco indelebile nel fandom della serie: da un lato della barricata si schiera chi quella scena la capisce, dall’altra chi non ha idea di cosa stia guardando. È il momento in cui Ethan Hunt si siede per la prima volta davanti a un computer e comincia a lottare contro il sistema per cercare di recuperare informazioni semisegrete e molto importanti. Lo fa usando il motore di ricerca di Usenet, in quello che Brian De Palma riprende come un incontro di wrestling intellettuale che lascia Tom Cruise sfinito dopo ore di navigazione in cerca di qualcosa che non gli è del tutto chiaro.

È chiaro che stiamo per scrivere una banalità, ma Mission: Impossible è uscito nel 1996 e si vede. Perché già la serie degli anni Settanta puntava molto del suo fascino anche sui gadget e in generale sull’idea che i membri dell’IMF abbiano a disposizione tecnologie avanzatissime che non si vedranno sul mercato prima di cinque o dieci anni. Il problema è che dieci anni dopo il 1996 era ancora il 2006, e sapete bene quanto la tecnologia progredisca rapidamente e quanto soprattutto gli ultimi vent’anni abbiano visto una serie di balzi in avanti che hanno completamente trasformato l’ecosistema nel quale si muoveva un po’ goffamente all’epoca Ethan Hunt.

C’è chi guardando la scena di Tom vs. Usenet si sentirà a casa, pervaso da quel calore un po’ nostalgico che gli ricorda i tempi del 56k e del fratello che tirava su il telefono nel momento peggiore facendo cadere la connessione. E chi invece guarderà il proprio smartphone e si chiederà se ci possa forse essere un collegamento tra questo oggetto e i trabiccoli che si vedono sullo schermo della TV. Mission: Impossible di Brian De Palma è un film archeologico: non è una colpa né un difetto ma una semplice constatazione. È un film nel quale una grossa mole di dati sensibili è conservata in speciali dischetti da 234 mega, e i dati sono talmente tanti che ne servono ben due. Fa sorridere perché la sua intera trama, oggi nell’anno 2023, non starebbe in piedi proprio perché la tecnologia vera ha superato a destra strombazzando le tecnofantasie di fine anni Novanta.

Di nuovo: non è un difetto né un problema, solo una considerazione un po’ oziosa: la saga ipertecnologica per eccellenza era per sua stessa natura condannata all’obsolescenza fin dal primo capitolo. Diciamo che per godersi appieno Mission: Impossible bisogna sospendere l’incredulità e accettare di stare guardando una lezione di archeologia per immagini. È a quel punto che succede la cosa più bella che possa succedere, e cioè ci si trova davanti a un filmone. Nel quale c’è una rissa con Google, ma comunque un filmone.

Brian De Palma non è uno che lavora tanto: ha meno di quaranta film in carniere spalmati su sessant’anni di carriera. Quando accetta un lavoro, di solito, è perché gli piace il progetto ed è convinto di poter fare un bel film. E siccome Brian De Palma è molto bravo, Mission: Impossible è un bel film. Più anni Settanta che anni Novanta, gadget e hi-tech a parte: ha i ritmi del vecchio thriller, e non ha paura di rallentare o addirittura frenare quando la storia lo richiede. Conserva tutte le sue cartucce migliori (e gran parte del budget) per il gran finale, che è anche la genesi degli stunt pazzi di Tom Cruise in questa saga: lui voleva girare la scena su un treno in corsa per davvero, ma si dovette accontentare di una macchina che gli sparava in faccia il vento a 140 km/h mentre lui si aggrappava a un treno fermo. È la sequenza che più di tutte stabilisce il tono di tutti i capitoli successivi, ma non è neanche lontanamente (anche per colpa di un digitale invecchiato prevedibilmente male) la cosa migliore del film.

Al contrario: Mission: Impossible è al suo meglio quanto più si allontana dal template dell’intero franchise. Perché è in quei momenti in cui assomiglia più a La talpa che a un James Bond che viene fuori il De Palma più elegante e ficcante, capace di far parlare i suoi attori con uno sguardo o un movimento del capo, di usare il silenzio tanto quanto la colonna sonora e il rumore. Aiuta che per il cast De Palma abbia scelto una collezione clamorosa di facce da noir, dalla femme fatale perfetta Emmanuelle Béart a Vanessa Redgrave. E aiuta anche che la storia scritta da David Koepp non porti Ethan Hunt a salvare il mondo ma a doversi districare in una rete di tradimenti e doppi giochi che spostano gran parte dell’azione sul piano puramente psicologico: ci vuole coraggio a cominciare una saga con quello che altrove sarebbe il terzo o quarto capitolo, con l’eroe che viene spodestato e spacciato per cattivo. De Palma ha un controllo perfetto di questi ritmi e di questo modo di raccontare una storia, e il risultato è un film che funzionerebbe anche senza un elicottero appeso a un treno che entra in una galleria.

Ovviamente però Mission: Impossible è anche azione e stunt pazzi, e pure De Palma non può sottrarsi. Detto del finale prevedibilmente esplosivo, il momento migliore del film è però un altro: la lunghissima, estenuante sequenza della rapina alla sede della CIA, che deve essere condotta in assoluto silenzio e che è quindi lentissima, tesissima e completamente priva di colonna sonora. Tensione massima ottenuta con il minimo sforzo da parte di tutti, a eccezione di Tom Cruise che deve usare un computer mentre penzola appeso a dei cavi. Sono quasi dieci minuti che da soli valgono un film, una sinergia perfetta tra narrazione e puro gesto atletico. Godeteveli: se Mission: Impossible è arrivato al settimo/ottavo capitolo è soprattutto merito di questa scena.

Trovate tutte le informazioni su Mission: Impossible Dead Reckoning – Parte uno nella nostra scheda.

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