Minority Report vent’anni dopo: aveva previsto (quasi) tutto

Minority Report compie vent’anni: quante delle sue previsioni si sono avverate?

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Minority Report compie vent’anni, e probabilmente non c’è nessun altro film come lui nella corposa e clamorosa filmografia di Steven Spielberg. Incontri ravvicinati del terzo tipo, E.T. e anche A.I. – Intelligenza artificiale sono tre straordinari esempi di fantascienza umanistica, più interessata a come l’elemento sci-fi influenzi la nostra umanità che a fare previsioni per il futuro della società e del pianeta (per quanto almeno A.I. accarezzi anche questi temi). La guerra dei mondi è fantascienza classica, pre-dickiana, per sua stessa natura diversa da quella di Minority Report. E Ready Player One usa la fantascienza per fare, ancora una volta, discorsi sull’umanità, intesa forse più come collettivo che come singoli – discorsi sul nostro immaginario, sulle storie che ci raccontiamo per tirare avanti. Minority Report, invece, è quel genere di fantascienza nella quale conta di più il suffisso del prefisso.

Non è solo questo, ovviamente: in quanto Filmone con la F maiuscola è anche una tragica storia d’amore, di separazione e di accettazione della morte, è la storia di un detective da noir che potrebbe essere uscito da Blade Runner e che oscilla tra la perfezione sul posto di lavoro e quelle tentazioni chimiche che sono il suo unico modo per dimenticare il dolore. Minority Report è un thriller, intricatissimo, pieno delle proverbiali aringhe rosse, di colpi di scena, di tradimenti e di ribaltamenti di prospettiva. Ed è un grande action, con parecchie sequenze più da “film di Tom Cruise” che da “film di Steven Spielberg” ma anche diverse autocitazioni, da Indiana Jones in giù.

Più di tutto, almeno nel 2022, Minority Report è però un film predittivo come il suo trio di precog. Parte da un racconto breve e considerato minore di Philip Dick, ci attacca sopra una serie di altri spunti presi da altri racconti e romanzi di Dick, e usando quella base affina la propria visione del futuro, di una società ipertecnologica e iperconnessa nella quale la possibilità di prevedere certi crimini è solo l’ultima di tante meraviglie che, come in ogni grande opera di fantascienza, vengono immaginate come normali, come parte della quotidianità – con la conseguente analisi di come la loro esistenza abbia plasmato la nuova umanità. Minority Report è insomma un film non solo con una storia da raccontare ma con una visione, uno squarcio di un futuro possibile e abbastanza vicino (il film si svolge nel 2054) da permettere a noi, vent’anni dopo l’uscita e vent’anni prima della realizzazione di questo futuro, di giudicare quanto ci abbia azzeccato.

La prima cosa che ci si ricorda di Minority Report, la prima e più famosa immagine del film, è probabilmente quella di Tom Cruise che con due guanti aptici manipola il ricordo dei tre precog, visitando così in 3D la scena del crimine e ricomponendola in tempo reale come ci hanno fatto fare in tanti videogiochi recenti. Vista oggi la tecnologia non sembra più così incredibile – al netto del fatto che è alimentata dai ricordi di tre creature in grado di vedere il futuro, ovviamente – e se ce la trovassimo davanti la chiameremmo “realtà aumentata”. e semmai ci stupiremmo del framerate elevato e dell’alta definizione delle immagini (o neanche quella, visto che i ricordi dei precog sono apparentemente a 480p). Come non ci stupiremmo troppo della creazione istantanea delle palline di legno che portano il nome di vittima e colpevole: è normale stampa 3D (e a dirla tutta quell’effetto speciale non è invecchiato benissimo).

Ci stupiremmo invece per una cosa sulla quale Minority Report ha avuto contemporaneamente ragione e torto marcio. È vero, la pubblicità ci segue ovunque, ci profila, quando entriamo nei negozi, quando facciamo acquisti online, et cetera. Ma Spielberg si è dimenticato di immaginarsi un elemento che per noi oggi è fondamentale: la privacy, e di conseguenza le cuffiette, che prenderebbero il rumore infernale di certe scene di Minority Report, con voci che si sovrappongono ad altre voci in cerca dell’attenzione di chiunque sia a portata di orecchio e di profilazione, e lo trasformerebbe in un misericordioso silenzio. Interrotto a intervalli regolari da una voce che chiama proprio il nostro nome e ci ricorda i nostri ultimi acquisti – ma senza pubblicizzarli al mondo intero come avviene in Minority Report.

Per quel che riguarda la levitazione magnetica, be’, esiste e funziona; purtroppo non abbiamo ancora i veicoli che si spostano in verticale, responsabili tra l’altro di una clamorosa scena da videogioco platform, ma ci stiamo attrezzando. Come ci stiamo attrezzando per avere dei jet pack che funzionino come quelli di Minority Report: al momento l’approssimazione migliore che fornisce la realtà è questa

e comunque anche i prototipi più avanzati hanno ancora problemi insormontabili (non ultimo quello che consumano da soli quello che servirà all’intera Italia per passare l’inverno). È il solito problema che ha la fantascienza con gli oggetti volanti: stiamo ancora aspettando lo skateboard di Ritorno al futuro II, figuriamoci che speranze abbiamo per il jet pack (a tale proposito, se volete leggere un bel libro sull’argomento vi consigliamo questo di Daniel Wilson, autore tra l’altro di Robopocalypse, dal quale proprio Spielberg avrebbe dovuto trarre un film che però è poi ha fatto perdere le proprie tracce).

Sulla domotica non ci pronunciamo neanche, mentre due parole vanno assolutamente dette sull’argomento centrale del film: la possibilità di prevedere i crimini e dunque di prevenirli prima che vengano commessi. Che sì, è il vero elemento “fanta” del film, oltre a essere un classico dickiano, ma è anche più spaventosamente vicino alla realtà di quanto sembri. Non perché abbiamo trovato il modo di prevedere il futuro: fino a prova contraria i precog non esistono. Ma l’idea che si possa prevedere un crimine e agire prima che accada non è fantascientifica: a Chicago, per esempio, ci stanno provando da qualche anno.

E dicono anche che va bene!

L’algoritmo riesce a prevedere i crimini con una settimana di anticipo e un’accuratezza del 90% (che in un mondo di buon senso dovrebbe comunque essere inaccettabile). Ovviamente, però, gli algoritmi non sono neutrali, per il semplice fatto che è un essere umano a crearli; ed è stato suggerito da più parti che l’algoritmo usato dalla polizia di Chicago abbia un fortissimo bias razzista, e tenda a concentrarsi aprioristicamente più sui quartieri neri della città che su quelli bianchi.

Vi renderete conto da soli che la discussione è un ginepraio ancora più intricato di quello nel quale si infilano a un certo punto Danny Witwer, John Anderton e la sua squadra, quando discutono di libero arbitrio e si chiedono se prevenire un crimine non possa significare che quel crimine non è davvero mai avvenuto il che renderebbe innocente la persona che l’ha commesso. Non sta a noi giudicare la bontà dei metodi predittivi della polizia di Chicago (per quello c’è gente che ha studiato), solo segnalarvi che quella che nel 2002 poteva sembrare una soluzione fantascientifica persino un po’ facilona oggi è una discussione molto reale che impatta almeno 2.7 milioni di persone.

Vogliamo dire che vent’anni dopo Minority Report ci ha preso su (quasi) tutto?

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