Mignonnes - Donne ai primi passi merita attenzione, non boicottaggio
Il film d’esordio di Maïmouna Doucouré è in parte biografia, in parte denuncia, e non c’entra nulla con la pedofilia
La polemica è esplosa a fine agosto con l’uscita del poster ufficiale del film, e si è rinfocolata negli ultimi giorni con l’uscita dello stesso su Netflix – e il fatto che certi attacchi si siano ripetuti anche ora che il film è a disposizione di chiunque voglia vederlo e farsi un’opinione indica come #CancelNetflix sia soprattutto una questione di principio e abbia poco a che fare con la sostanza di quello di cui stiamo parlando.
Capitolo uno: Maïmouna Doucouré
Maïmouna Doucouré è una regista francese figlia di immigrati senegalesi, cresciuta in una famiglia poligama ma altrimenti tradizionalista, religiosa e conservatrice e che con Mignonnes ha esordito nel mondo dei lungometraggi vincendo anche un premio come miglior regista al Sundance, uno degli ultimi grandi eventi pre-apocalisse del 2020. Nel suo film ha voluto raccontare la sua personale esperienza di crescita in un contesto non semplicissimo, e il suo rapporto con le prime cose “da adulte” con le quali una bambina di undici anni si trova prima o poi a confrontarsi; e l’ha modernizzata e adeguata ai nostri tempi grazie a un lungo lavoro di confronto con le sue attrici, girando un film in parte improvvisato (la sceneggiatura esisteva, ma le protagoniste non l’hanno mai vista e sono state incoraggiate ad andare a braccio il più possibile, per rendere la messa in scena il più naturale possibile) e figlio dell'ispirazione collettiva e non solo di una sua personale visione.
Capitolo due: Netflix
L’argomento è già stato sviscerato qui ma vale la pena ripeterlo: a fronte di un film che tutto vuole fare tranne che glorificare l’ipersessualizzazione delle minorenni odierne, Netflix ha pestato la proverbiale montagna di escrementi, pubblicizzando un’opera di denuncia come se fosse uno di quei concorsi di ballo per minorenni che vengono citati e criticati proprio in Mignonnes. Al di là dell’inopportunità del poster in sé – a meno di non volerci vedere un improbabile intento meta-critico che sfrutta un’immagine discutibile con intento critico e non celebrativo, ma siamo sicuri che Netflix ha già abbastanza avvocati del diavolo senza bisogno del nostro aiuto –, è ingiusto nei confronti di Doucouré vendere il suo film in questo modo, banalizzandolo, travisandolo e puntando tutto su quella che è solo una goccia nel mare di spunti che è il film.
Diverso è il discorso produttivo: parecchie critiche sono state rivolte non tanto al prodotto-film, quanto alla macchina che ci sta dietro, a quei quasi 700 provini di undicenni che ballano che hanno preceduto il casting definitivo, all’opportunità di far lavorare bambine così giovani, e con scene così forti, di fronte a uno stuolo di occhi adulti che le studiano nei minimi dettagli. Sarebbe quasi un discorso comprensibile se non fosse che, fino a prova contraria, tutte le persone coinvolte sono state protette e messe nelle condizioni di lavorare in tranquillità e di capire quello che stavano mettendo in scena; e i racconti di un set gonfio di gente pervertita che spia i fondoschiena delle protagoniste mentre ballano suonano più come la fantasia erotica di chi vuole demolire il film che come la realtà.
Tutto questo, vale la pena ripeterlo, al netto di quanto sappiamo: dovessero venire fuori storie tremende dal set di Mignonnes anche la valutazione sul film dovrebbe necessariamente cambiare, ma lo ribadiamo ancora una volta, stiamo parlando di nulla che è stato spinto su Twitter come se fosse qualcosa, e il sospetto che se a fare la stessa cosa fosse stato un affermato regista maschio bianco (o non necessariamente bianco, citofonare Kechiche per informazioni) e non una donna esordiente di colore, all’utenza di Twitter non sarebbe mai venuto in mente di mettere in discussione un intero processo produttivo, soprattutto non a seguito della visione dell’opera intera.
Capitolo tre: il film
Perché poi, al netto di tutte le considerazioni para-cinematografiche, ci sarebbe da discutere del contenuto di questo film presunto pedofilo/pizzagate/soros/colonie marziane. Che c’entra con la pedofilia quanto La vita è bella c’entra con l’antisemitismo: certo, ne parla, ma direste mai che lo glorifica? Mignonnes è la storia di Aminata detta Amy, figlia di immigrati senegalesi che vive in un quartiere povero di Parigi dove condivide la stanza con il fratello minore e la casa con la madre e la vecchia zia, nell’attesa del ritorno del padre che è andato in Senegal a prendere la sua futura seconda moglie per riportarla in Francia e sposarla ufficialmente.
Un contesto eufemisticamente inquadrabile come “complicato”, nel quale quello che manca è prima di tutto l’attenzione genitoriale, non per cattiveria ma per mancanza di tempo ed energie: nel tentativo di tenere inquadrata Amy, mamma e zia la immergono fino al collo nelle loro tradizioni religiose (la famiglia è musulmana) sperando che siano sufficienti a tenerla lontana da generici guai e a trasformarla in una donna modesta e rispettabile. Ovviamente, avendo 11 anni e un gruppetto di compagne di scuola che passano le loro giornate sotto un ponte disastrato a ballare ed emulare le gesta di anonime ballerine twerkanti su Internet, Amy prende tutt’altra strada, e dopo essersi conquistata la fiducia delle Mignonnes si unisce a loro e comincia ad allenarsi per un importante “concorso di ballo per bambine troppo minorenni per fare queste cose” che ciononostante viene comunque organizzato da un gruppo di adulti e pubblicizzato come se fosse un grande evento e non un gigantesco spot a favore dell’ipersessualizzazione delle minorenni.
Dai presupposti dovrebbe essere già chiara la parabola narrativa del film, per cui tanto vale tornare a concentrarsi sull’oggetto delle polemiche: è vero, le cinque (poi quattro) protagoniste sono spesso vestite in maniera, diciamo così, inappropriata ed eseguono mosse di danza altrettanto inadatte alla loro età – in questo senso alcune delle sequenze di Mignonnes dovrebbero turbare chiunque, non però, ed è questo il distinguo fondamentale, in senso erotico. Non c’è nulla di sensuale nel vedere un gruppo di undicenni che si muovono come se di anni ne avessero il doppio e che, come il film ci tiene più volte a ribadire, non hanno i realtà alcuna idea del perché lo fanno, del motivo per cui le loro mosse e il loro twerking è inappropriato e fuori posto, o anche del perché chi le guarda dovrebbe essere attratto da loro. Sono undicenni abbandonate a loro stesse che ripetono gesti e pose senza comprenderle davvero (si vedano un paio di scene che coinvolgono una un bagno dei maschi e un’altra un preservativo), e nei loro sguardi teoricamente sensuali si legge solo lo smarrimento e il muoversi a tentoni di chi, per dirla con Gigliola Cinquetti, non ha l’età, né una struttura familiare di supporto alle spalle che la guidi e la orienti.
Doucouré gira tutto questo con un’energia straordinaria e con un’attenzione estrema a come tratta i corpi delle sue attrici: anche nelle scene più teoricamente provocanti non c’è mai uno sguardo di troppo, un soffermarsi su un dettaglio per sessualizzarlo; la regista francese non usa le sue attrici ma lavora con loro, guarda sempre il mondo con i loro occhi, anche quando farlo richiede una certa dose di vestitini attillati e mosse da Rihanna. Quegli stessi balletti che nel primo trailer ufficiale avevano fatto gridare allo scandalo e al disgusto sono, una volta inseriti nel contesto del film, effettivamente disgustosi, e volutamente tali: sono una denuncia, non un endorsement, e per non accorgersene bisogna aver visto il film da un’altra stanza e con il volume al minimo.
Epilogo: e quindi?
Mignonnes è un film nato dalle personali esperienze di crescita della sua regista e sceneggiatrice, e costruito su un fortissimo messaggio di denuncia sociale, in parte rivolto contro quella cultura social che mette il disincarnato gradimento altrui in cima alla scala delle nostre priorità, ma soprattutto verso la situazione di abbandono educativo, familiare e sociale che fa da terreno fertile per certi eccessi – e verso il pervicace attaccamento a tradizioni e modi di pensare che nel 2020 non sono più utili a una bambina di undici anni che sta affrontando una fase delicata della sua crescita.
È una critica a tutto tondo, e se c’è una qualche forma di assoluzione per gli adulti è solo verso la madre di Amy, colpevole ma anche vittima di una situazione più grande di lei; il resto sono dita puntate ed esclamazioni più o meno implicite in stile “giù le mani dai nostri bambini!”, e una silenziosa preghiera perché tutte le Amy di questo mondo possano crescere secondo i loro tempi e le loro necessità e non accelerando artificialmente il processo per mettersi alla pari con il resto del mondo e con le sue assurde esigenze che prevedono che una bambina debba cominciare a sentirsi un po’ donna immediatamente dopo il menarca. Mignonnes è un grande esordio, coraggioso e con tante cose da dire, e non si merita nulla di quello che sta subendo.