I migliori film di novembre 2022 visti al cinema e in streaming
La classifica dei migliori film di novembre 2022 usciti al cinema o in streaming: da Boiling Point a Pinocchio fino a Glass Onion
Ecco i migliori film di novembre 2022 che abbiamo visto al cinema o in streaming
L’idea è quella di ricapitolare tutte le nostre segnalazioni scremando verso l’alto solo quello che pensiamo non vada perso, non debba sfuggire e meriti una visione. Ci saranno i film più noti e pubblicizzati come anche, con una certa preferenza, quelli che meno noti e dotati di una cassa di risonanza meno forte, che quando lo meritano hanno più bisogno di un riflettore su di sé per farsi notare.
Un anno, una notte
Tutti ci ricordiamo degli eventi tragici della notte del 13 novembre 2015, quando al Bataclan di Parigi un attentato terroristico rivendicato dall’ISIS costò la vita a 130 persone durante il concerto degli Eagles of Death Metal. Un anno, una notte tuttavia pur mostrando in parte quegli eventi drammatici ne rifiuta la visione morbosa (il dramma è sempre nel fuori campo), raccontando invece con delicatezza e tatto il dopo, l’aspetto forse più doloroso ma invisibile: la difficoltà dei sopravvissuti nel ricominciare a vivere.
Glass Onion - Knives Out
Glass Onion, che è fatto anche radicalmente meglio del primo, non vuole farci scoprire un bel niente, vuole abbracciare la sua natura leggera e rilassante, distraendoci con l’indagine mentre scrive molto meglio i personaggi e lavora ottimamente di recitazione su reazioni e piani d’ascolto per spiegare le relazioni, esattamente la materia di cui sono fatti i gialli, cosa lega le persone e quindi le ragioni per le quali fanno quello che fanno. La maniera in cui tutto questo film tiene sveglio lo sguardo, mentre le molte parole accumulano indizi da ripassare alla fine, è mirabile. In quasi ogni scena c’è una ricerca di soluzione visiva, di luci particolari (quella del faro che passa durante il blackout), di movimenti di macchina che svelano o nascondono o di montaggio (la tensione dello scattare della teca del quadro) o ancora di scenografia (l’assurdo attico nella cipolla di vetro), che invitano a esplorare con lo sguardo quel mondo denso di indizi, invitano anche a capire e seguire il detective fino a che non scopriamo l’idiozia totale e il senso di una storia di idioti.
Boiling Point
Sulla perfezione registica di Boiling Point non ci sono dubbi. Dal momento infatti in cui Andy è al telefono fuori dal locale e varca la soglia del ristorante, ogni singola cosa che accade a lui o ai suoi collaboratori non è che un indizio che Barantini ricerca con insistenza per crearci sempre più aspettative, ansie, dubbi su cosa stia davvero succedendo o – soprattutto – su cosa diavolo sta per succedere. Perché sentiamo sulla pelle che qualcosa di grosso deve succedere. La cosa stupefacente è però che questa sensazione si avverte fortissima nonostante “il visivo” appaia invece come perfettamente naturale, scorrevole. Normale. Non è allora l’occhio di Barantini a spingerci con insistenza da qualche parte, perché questo si limita a seguire i personaggi come fosse la loro ombra. È la scrittura a creare questo disagio.
Il prodigio
La trovata clamorosa è girare Il prodigio con l’armamentario dell’elevated horror (e Florence Pugh già era protagonista di uno dei film simbolo del genere, Midsommar), con quella fotografia (e anche alle volte quella composizione di immagini rarefatte con personaggi come isolati in ambienti inquietanti) e quello score. Il prodigio non mira a mettere paura, ma in questo modo trova l’essenza del cinema, riuscendo con le medesime immagini a dire due cose: non solo che quell’Irlanda vessata dalla carestia è un mondo in cui l’abiezione umana è a proprio agio, ma anche che il mondo che manipola le donne ha esattamente quell’aria da horror, è un mostro che genera ambienti spaventosi. Partirà una guerra per l’anima di una bambina in cui le fedi incrollabili (nella scienza e nella religione) diventano il vero villain e il percorso dell’eroina dice qualcosa di molto poco comune per il cinema americano (figuriamoci per il western!), cioè che pur avendo un’opinione forte l’unica scelta realmente morale è quella umana anche se richiede di saper prendere la forma del contenitore in cui si trova, come l’acqua, per arrivare al proprio scopo.
La timidezza delle chiome
La timidezza delle chiome è uno di quei documentari costruiti lungo un ampio arco di tempo, con una pazienza e uno spirito d’osservazione che richiedono al documentarista – qui Valentina Bertani – di piegarsi umilmente di fronte alla realtà. Si tratta infatti di un doc “character-driven”, dove la narrazione si adatta all’imprevedibilità del soggetto scelto, pur sempre con una scrittura che guidi il reale a fini drammaturgici (non per imbrogliare, ma per dare alla storia un respiro coerente). Bertani compie esattamente questo gesto di umiltà, riuscendo a tirare fuori da “suoi” Benjamin e Joshua un doc che sa di racconto di formazione, tra toni di commedia e momenti di dolcezza che aprono allo spettatore le porte dell’interiorità dei suoi protagonisti.
Pinocchio di Guillermo Del Toro
Pinocchio come lo conosciamo sarebbe una storia di ricerca e inseguimento della vita, Guillermo Del Toro invece, con un umorismo che a tratti ricorda quello del miglior Terry Gilliam in questo che è il suo miglior film, ha il coraggio di trasformare la storia di un burattino che vuole diventare di carne, nella storia di una nuova relazione con la morte. La morte apre il film (con il figlio di Geppetto), lo contrappunta (Pinocchio entra ed esce da un regno dei morti concepito da un’immaginazione malata e quindi stupendo), guarda il crocefisso in legno e pensa di essere come lui (ad un certo punto, legato, starà proprio in quella posizione!) e alla fine una coda che come molto nel film non esiste nella storia di Collodi chiude il cerchio di questa revisione del rapporto con il lutto e l’assenza cambiandolo di segno. Ciò che siamo abituati a sentirci raccontare come l’apice della sofferenza diventa a sorpresa un momento di serena accettazione. In mezzo c’è una storia di fascismo e dell’al di là, non tanto quella di una padre e un figlio che si cercano ma una di ribellismo.
Falla girare
A differenza della quasi totalità delle commedie italiane Falla girare quando vuole creare una risata ci riesce. Che una simile notazione apra la recensione di una commedia come una grande notizia è, in sé, una constatazione pesantissima sullo stato del cinema commerciale. Là dove le commedie italiane lavorano di singole battute e conoscono solo l’umorismo verbale, Giampaolo Morelli (al secondo buon film da regista) quando vuole far pronunciare a qualcuno una battuta ha già creato una situazione, un’atmosfera e un tono che fanno sì che quella battuta stia su un piedistallo e possa atterrare bene. In più Falla girare è un fieramente scemo a tutti i livelli, scemo di quel tipo di idiozia che richiede una buona dose di intelligenza per essere messa su schermo e organizzata per sembrare tale. Scemo nei costumi, nelle soluzioni di trama, nella recitazione e solo alla fine scemo nelle battute, come culmine.
Meet Cute
Noga Pnueli scrive una sceneggiatura scemissima al punto giusto, in cui la macchina del tempo è un lettino abbronzante nel retro di un locale cinese per farsi le unghie (tan machine/time machine), e in cui le motivazioni di tutti sono le più egoiste. Cuoco e Pete Davidson sono perfetti insieme, fenotipicamente giusti e i luoghi metropolitani scelti i più giusti. Merito di Alex Lehman, che sembra non sbagliare nemmeno un dettaglio di questa regia, lavora durissimo di fotografia con John Matysiak (in un genere che di solito si appoggia molto più al montaggio) per deformare la vera città e creare un luogo immaginario, quasi onirico, in cui tutto ha la consistenza dei ricordi dorati e una lieve deformazione da desiderio.