Mediterraneo, compie trent’anni il “mi arrendo” finale di Salvatores
Mediterraneo uscì trent’anni fa, mettendo fine alla trilogia della fuga e regalando un meritatissimo Oscar a Gabriele Salvatores
L’ambientazione bellica è quindi solo una scusa: come ha detto Salvatores nell’intervista che trovate linkata sopra, «La nostra idea era quella di parlare dello stato d’animo della nostra generazione. Lo dice in maniera fin troppo esplicita Abatantuono nel finale: “Volevamo cambiare l’Italia e non siamo riusciti a cambiare niente”». Salvatores è del 1950, e nel 1991 aveva quindi appena passato i quarant’anni: la sua generazione è quella nata sulle macerie della guerra ma in un’Italia rivitalizzata dal boom economico, quella che ha fatto il ’68 in prima fila e che all’inizio degli anni Novanta stava cominciando a tirare le somme dopo i complicatissimi anni Ottanta, quella che al momento dell’uscita del film aveva, come dice il tenente Raffaele Montini (Claudio Bigagli), «quell’età in cui non hai ancora deciso se mettere su famiglia o perderti per il mondo». Mediterraneo è quindi, più di Marrakech Express è Turné, un film sulle ultime possibilità: i soldati di stanza a Megisti dovrebbero restarci solo quattro mesi e finiscono per rimanerci tre anni, durante i quali possono chiedersi per l’ultima volta che cosa vogliano davvero dalla vita, prima di tornare sui binari della normalità. Parla di gente durante la Seconda guerra mondiale, ma in realtà parla degli allora quarantenni delusi dalla morte delle ideologie e della passione politica – volendo potrebbe anche essere visto come una sorta di campanello d’allarme che anticipa di tre anni l’arrivo del berlusconismo, una lettura ironica considerando che una delle case di produzione coinvolte nel film fu la Silvio Berlusconi Communications.
Questo perché Mediterraneo tiene al minimo i riferimenti storici – gli otto soldati sono tecnicamente fascisti, almeno quando arrivano a Megisti, ma il regime viene citato una sola volta in tutto il film, nella scena con Aziz il pescatore turco che spaccia fumo, e non in termini lusinghieri – e punta tutto sull’astrazione, su un teatrino sullo sfondo del nulla nel quale otto archetipi riscoprono gradualmente e ciascuno a modo suo la propria umanità. È un film molto letterario: più che a soldati della Seconda guerra mondiale, gli otto assomigliano a Giovanni Drogo nel Deserto dei tartari, sospesi nel tempo e perennemente in attesa di qualcosa, e l’assurdità dell’occupazione militare di un villaggio pacifico e senza alcuna importanza strategica ricorda alcune satire belliche tipo Comma 22. La guerra in Mediterraneo conta talmente poco che ci vuole un pilota con l’aereo in avaria perché a Megisti si scopra che “c’è stato l’8 settembre!” e che inglesi e americani sono diventati amici e i tedeschi sono i nuovi nemici.
Quello che conta davvero su Megisti, quindi, è la parabola di trasformazione degli otto, che sbarcano come reietti – il gruppo comprende tra gli altri un disertore, un montanaro che non vuole staccarsi dal suo asino, “superstiti di battaglie perse” ed è guidato da un professore del ginnasio – e trovano sull’isola la propria strada; qualcuno lo fa subito, qualcuno ha bisogno di decenni prima di capirlo, resta il fatto che Mediterraneo è un po’ come Lost senza il mostro di fumo, e vent’anni prima: l’isola cambierà tutti, e regalerà a tutti la consapevolezza che è sempre possibile decidere di dire basta, di arrendersi e mollare tutto, di reinventare la propria vita e pure la propria identità.
Salvatores racconta questo pellegrinaggio interiore a più voci in una forma altrettanto libera: Mediterraneo è una sorta di flusso di coscienza, una serie di diapositive (anche ripetitive: la gag della partita di calcio interrotta da un evento sconvolgente viene utilizzata due volte nel giro di pochi minuti) che hanno pochissimo impatto sulla storia ma che servono a cesellare sempre più finemente la personalità degli otto soldati, e poi anche di Vassilissa (Vana Barba), la prostituta locale. In questo lo aiutano l’affiatamento tra il cast e il talento di certi interpreti in particolare: oltre a essere un film poetico e di una dolcezza disarmante, Mediterraneo fa anche molto ridere, a volte grazie alla sceneggiatura di Enzo Monteleone, altre alla capacità di improvvisazione dei vari Bigagli, Cederna e Abatantuono (in particolare Abatantuono: «Cosa ne sai tu di cosa mangiano i greci?», per esempio, non era sul copione).
È il discorso con cui abbiamo aperto il pezzo: «Sai che ogni volta che vedo un tramonto mi girano i coglioni?» è una delle battute migliori degli ultimi trent’anni di cinema italiano, ma è anche un riassunto perfetto di quello che Mediterraneo vuole raccontare, cioè l’ansia, il senso di vuoto e la voglia di “scappare dalla città” che attanaglia chiunque si rende conto che tutti gli sforzi fatti fin lì per cambiare le cose non sono serviti a niente – e sotto sotto la speranza che non debba per forza andare così, che ci siano soluzioni alternative all’accettare di non contare nulla, che la fuga possa essere un nuovo inizio e non un gesto di codardia. Forse è vero che come dice sempre Nicola Lorusso, sergente maggiore e aforista, “chi vive sperando muore cagando”; ma nonostante tutto, nonostante il cinismo e la voglia di arrendersi, Mediterraneo e le storie dei suoi otto soldati su una “isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo”, esistono (anche) per provare a dimostrare che Lorusso ha torto.