Mediterraneo, compie trent’anni il “mi arrendo” finale di Salvatores

Mediterraneo uscì trent’anni fa, mettendo fine alla trilogia della fuga e regalando un meritatissimo Oscar a Gabriele Salvatores

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«Sai che ogni volta che vedo un tramonto mi girano i coglioni? Perché penso che è passato un altro giorno». Mediterraneo di Gabriele Salvatores compie trent’anni, e questa citazione del sergente maggiore Nicola Lorusso lo riassume meglio di quanto riusciremo a fare noi in questo pezzo. Era il 31 gennaio 1991 quando quello che allora era il terzo e conclusivo capitolo di un’ideale “trilogia della fuga” (che diventerà tetralogia appena un anno dopo con Puerto Escondido) arrivò in sala, sull’onda del successo dei precedenti Marrakech Express e Turné. Il film era stato scritto e girato in brevissimo tempo, come ha raccontato Salvatores cinque anni fa, e il regista era il primo a temere che la magia fosse finita, che non si potesse azzeccare tre film di fila, al punto che scappò in India per non sapere nulla dei numeri del botteghino. E invece Mediterraneo venne accolto talmente bene che l’anno dopo lo stesso Salvatores si trovò a ricevere il premio Oscar per il Miglior film straniero dalle mani di Sylvester Stallone, e oggi la storia degli otto soldati italiani abbandonati su un’isoletta in mezzo all’Egeo durante la Seconda guerra mondiale è indiscutibilmente anche storia del cinema italiano.

Per capire Mediterraneo è necessario capire chi l’ha scritto e chi l’ha interpretato, e il periodo storico nel quale questo è successo. Come dicevamo sopra, il film è considerato con Marrakech Express e Turné parte di una teorica “trilogia della fuga”, un terzetto di opere che non condividono nulla se non il fatto di essere state girate e interpretate più o meno dalle stesse persone, e ovviamente quello di parlare di fuga; in senso ideale, ovviamente: fuga dalle responsabilità e dai problemi  della vita quotidiana, se la volete vedere nell’ottica del disimpegno, oppure fuga dalla delusione che nasce dalla consapevolezza di aver dato tutto e di non aver ottenuto nulla in cambio. La seconda chiave di lettura è la più interessante, e quella che si applica meglio al terzo film: dove i due precedenti parlavano di gente che faceva scelte escapiste per propria volontà, Mediterraneo è la storia di otto (ma anche nove, in realtà) persone che sperimentano la fuga sotto forma di esilio e di abbandono da parte delle istituzioni, e che se potessero scegliere non vorrebbero essere lì, sull’isola di Megisti – per lo meno all’inizio.

Lorusso

L’ambientazione bellica è quindi solo una scusa: come ha detto Salvatores nell’intervista che trovate linkata sopra, «La nostra idea era quella di parlare dello stato d’animo della nostra generazione. Lo dice in maniera fin troppo esplicita Abatantuono nel finale: “Volevamo cambiare l’Italia e non siamo riusciti a cambiare niente”». Salvatores è del 1950, e nel 1991 aveva quindi appena passato i quarant’anni: la sua generazione è quella nata sulle macerie della guerra ma in un’Italia rivitalizzata dal boom economico, quella che ha fatto il ’68 in prima fila e che all’inizio degli anni Novanta stava cominciando a tirare le somme dopo i complicatissimi anni Ottanta, quella che al momento dell’uscita del film aveva, come dice il tenente Raffaele Montini (Claudio Bigagli), «quell’età in cui non hai ancora deciso se mettere su famiglia o perderti per il mondo». Mediterraneo è quindi, più di Marrakech Express è Turné, un film sulle ultime possibilità: i soldati di stanza a Megisti dovrebbero restarci solo quattro mesi e finiscono per rimanerci tre anni, durante i quali possono chiedersi per l’ultima volta che cosa vogliano davvero dalla vita, prima di tornare sui binari della normalità. Parla di gente durante la Seconda guerra mondiale, ma in realtà parla degli allora quarantenni delusi dalla morte delle ideologie e della passione politica – volendo potrebbe anche essere visto come una sorta di campanello d’allarme che anticipa di tre anni l’arrivo del berlusconismo, una lettura ironica considerando che una delle case di produzione coinvolte nel film fu la Silvio Berlusconi Communications.

Il segreto del successo perdurante di Mediterraneo, però, è che non è solo un film per gli allora quarantenni, oggi settantenni: è una storia talmente spoglia ed essenziale come l’isola sulla quale è ambientata che trascende la sua generazionalità per diventare universale. In altre parole chiunque si può rivedere in Montini, Noventa, Colasanti o Farina, anche se non ha fatto il Sessantotto (o la Seconda guerra mondiale); ed è il motivo per cui il film ha resistito al passare degli anni molto di più di altre opere simili e nate nello stesso contesto culturale e con lo stesso spirito di fuga come, per dirne una e fare anche un salto di medium, Due di due di Andrea De Carlo, che al contrario di Mediterraneo non riesce mai a staccarsi dal qui e ora per arrivare a parlare della sfuggente e ambitissima condizione umana.

Mediterraneo pope

Questo perché Mediterraneo tiene al minimo i riferimenti storici – gli otto soldati sono tecnicamente fascisti, almeno quando arrivano a Megisti, ma il regime viene citato una sola volta in tutto il film, nella scena con Aziz il pescatore turco che spaccia fumo, e non in termini lusinghieri – e punta tutto sull’astrazione, su un teatrino sullo sfondo del nulla nel quale otto archetipi riscoprono gradualmente e ciascuno a modo suo la propria umanità. È un film molto letterario: più che a soldati della Seconda guerra mondiale, gli otto assomigliano a Giovanni Drogo nel Deserto dei tartari, sospesi nel tempo e perennemente in attesa di qualcosa, e l’assurdità dell’occupazione militare di un villaggio pacifico e senza alcuna importanza strategica ricorda alcune satire belliche tipo Comma 22. La guerra in Mediterraneo conta talmente poco che ci vuole un pilota con l’aereo in avaria perché a Megisti si scopra che “c’è stato l’8 settembre!” e che inglesi e americani sono diventati amici e i tedeschi sono i nuovi nemici.

Quello che conta davvero su Megisti, quindi, è la parabola di trasformazione degli otto, che sbarcano come reietti – il gruppo comprende tra gli altri un disertore, un montanaro che non vuole staccarsi dal suo asino, “superstiti di battaglie perse” ed è guidato da un professore del ginnasio – e trovano sull’isola la propria strada; qualcuno lo fa subito, qualcuno ha bisogno di decenni prima di capirlo, resta il fatto che Mediterraneo è un po’ come Lost senza il mostro di fumo, e vent’anni prima: l’isola cambierà tutti, e regalerà a tutti la consapevolezza che è sempre possibile decidere di dire basta, di arrendersi e mollare tutto, di reinventare la propria vita e pure la propria identità.

Abatantuono

Salvatores racconta questo pellegrinaggio interiore a più voci in una forma altrettanto libera: Mediterraneo è una sorta di flusso di coscienza, una serie di diapositive (anche ripetitive: la gag della partita di calcio interrotta da un evento sconvolgente viene utilizzata due volte nel giro di pochi minuti) che hanno pochissimo impatto sulla storia ma che servono a cesellare sempre più finemente la personalità degli otto soldati, e poi anche di Vassilissa (Vana Barba), la prostituta locale. In questo lo aiutano l’affiatamento tra il cast e il talento di certi interpreti in particolare: oltre a essere un film poetico e di una dolcezza disarmante, Mediterraneo fa anche molto ridere, a volte grazie alla sceneggiatura di Enzo Monteleone, altre alla capacità di improvvisazione dei vari Bigagli, Cederna e Abatantuono (in particolare Abatantuono: «Cosa ne sai tu di cosa mangiano i greci?», per esempio, non era sul copione).

È il discorso con cui abbiamo aperto il pezzo: «Sai che ogni volta che vedo un tramonto mi girano i coglioni?» è una delle battute migliori degli ultimi trent’anni di cinema italiano, ma è anche un riassunto perfetto di quello che Mediterraneo vuole raccontare, cioè l’ansia, il senso di vuoto e la voglia di “scappare dalla città” che attanaglia chiunque si rende conto che tutti gli sforzi fatti fin lì per cambiare le cose non sono serviti a niente – e sotto sotto la speranza che non debba per forza andare così, che ci siano soluzioni alternative all’accettare di non contare nulla, che la fuga possa essere un nuovo inizio e non un gesto di codardia. Forse è vero che come dice sempre Nicola Lorusso, sergente maggiore e aforista, “chi vive sperando muore cagando”; ma nonostante tutto, nonostante il cinismo e la voglia di arrendersi, Mediterraneo e le storie dei suoi otto soldati su una “isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo”, esistono (anche) per provare a dimostrare che Lorusso ha torto.

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