Matrix Revolutions, che cosa è andato storto?
Matrix Revolutions riesce quasi a gettare al vento quanto di buono fatto dai due capitoli precedenti, ma dov’è che ha sbagliato di preciso?
Forse non poteva andare diversamente.
Da un lato quello che ottennero è che Reloaded e Revolutions possono essere visti uno dopo l’altro come se fossero i due tempi di un film unico, una mossa coraggiosa e tolkieniana come già dicevamo qui. Anche Reloaded riprendeva circa da dove si chiudeva il primo Matrix, ma in mezzo c’era un buco di sei mesi coperto da un videogioco e una serie animata; Revolutions, invece, si apre sulla Hammer, la stessa nave su cui si chiudeva il film precedente. L’impatto è notevole, soprattutto oggi che si possono riguardare i due film uno dopo l’altro senza dover aspettare sei mesi per l’uscita al cinema, e catapulta immediatamente chi guarda in quella che di fatto è una lunga giostra di due ore, una mitragliata di eventi (e di combattimenti) che lasciano pochissimo tempo per pensare e si concludono in un climax assurdo e visivamente impressionante ancora oggi.
D’altro canto, però, la scelta di rendere così liquidi i confini tra le due opere e trattarle come due parti di un tutto ha portato enormi problemi di bilanciamento, legati anche al fatto che uno dei due è “il secondo film di una trilogia” e l’altro “il terzo e ultimo film di una trilogia”. Tradizionalmente, il secondo capitolo è sempre quello più strano, più ricco di deviazioni dalla norma, anche più sperimentale: il primo serve per introdurre i personaggi e il mondo, il terzo è il climax di tutti gli archi narrativi, e il secondo è uno spazio creativo nel quale mettere quello che si vuole. Vale per le trilogie “tolkieniane” (Le due torri è molto diverso, per toni e ritmo, sia dal primo sia dal terzo volume) e vale spesso anche per quelle più orizzontali (provate a confrontare Indiana Jones e il tempio maledetto con gli altri due film), e vale anche per Matrix: Reloaded ha una struttura strana, è una collezione di elucubrazioni filosofiche interrotta da due lunghissime sequenze d’azione, ed è il capitolo dove si dedica più tempo ad approfondire gli altri esseri umani che non sono Neo e Trinity. Questo lascia a Revolutions tutta la responsabilità di chiudere tutti i discorsi lasciati in sospeso (la profezia, l’eletto, la guerra con le macchine, i programmi ribelli, l’Agente Smith che riesce a fare il salto dal mondo di Matrix a quello reale), ma lo obbliga anche ad alzare il volume dell’azione dopo un capitolo che si chiudeva con un pacifico dialogo-supercazzola tra l’Eletto e l’Architetto.
Il risultato è che il giusto mix tra azione e atmosfera, tra filosofia e mazzate, che caratterizzava il primo capitolo viene qui spezzettato su due film diversi da due ore l’uno, e la miscela tra gli ingredienti viene sballata. Revolutions è quasi solo azione, quasi tutto il tempo, è un film di guerra sovrabbondante e rumorosissimo e purtroppo parecchio scemo, se si riesce a non farsi distrarre dal rumore delle esplosioni. Che, non fraintendeteci, vanno sempre benissimo: stiamo comunque parlando di un film che dedica quasi metà del suo tempo a una battaglia all’ultimo sangue/circuito tra un esercito di robot e la resistenza umana rappresentata da gente che manovra giganteschi mech corazzati e armati fino ai denti; le Wachowski sanno come si gira l’azione, sanno come gestire certe coreografie e come mettere in scena sequenze frenetiche ma mai confuse, sempre di una bellezza e di una chiarezza cristalline. In Matrix Revolutions purtroppo esagerano con il buio e quella palette bluastra che andava tanto di moda nei primi Duemila, ma di fronte a scene del genere è difficile non esaltarsi ancora oggi (figuratevi quando si poteva vederle in sala e non solo in salotto):
Il problema è che Matrix Revolutions è quasi solo questo – è il discorso del bilanciamento che facevamo sopra. O meglio: queste sequenze (la battaglia a Zion, ma anche lo scontro finale tra Yin e Yang Neo e l’agente Smith) sono quelle che ci si ricorda con più affetto. Perché il resto è dedicato a dare tutte quelle risposte che aspettavamo dal momento in cui Neo ha inghiottito la pillola rossa, e che non riescono a essere soddisfacenti (o forse non avevano possibilità di esserlo e l’impresa era condannata al fallimento fin dall’inizio). E non è solo un problema di “è tornato il Merovingio” – che comunque È un problema, considerato quanto estraneo al film e inutilmente sopra le righe fosse il personaggio già in Reloaded – ma anche e soprattutto della scelta di spingere sempre di più sul pedale spiritual-filosofico trascinando il mondo di Matrix lontano dalla post-apocalisse e dai robot e in una terra strana al confine tra fantasy e religione.
Se chiedete a noi, il problema nasce già in Reloaded, con la scelta di far uscire l’agente Smith da Matrix e farlo reincarnare in Bane; è una soluzione ai confini con la magia, che apre la strada a una serie di assurdità simili che spuntano come funghi in Revolutions, dall’Uomo del Treno all’esistenza di un limbo che separa la realtà da Matrix, dai programmi ribelli che fuggono dall’eliminazione per cercare rifugio nel vero mondo delle macchine. Con ogni nuova spiegazione, Matrix Revolutions si allontana di un ulteriore passo dall’equilibrio tra scienza e magia che teneva in piedi il franchise, per abbracciare senza vergogna l’assurdo e la pioggia di dei ex machina che risolveranno tutta la situazione.
L’unica consolazione è che a quanto pare Matrix Revolutions non ha messo la parola fine alle vicende di Neo e Trinity, che dovrebbero tornare quest’anno in un quarto capitolo. Chissà che non sia l’occasione per fare pace con l’universo di Matrix.