Matrix Resurrections aveva delle grandi idee
Matrix Resurrections è già stato un po’ dimenticato, ma in mezzo al pasticcio brillavano un paio di idee che avrebbero meritato maggior fortuna
Matrix Resurrections è su Netflix
E quindi è tutto un riciclare e un andare alla ricerca delle corrispondenze 1:1 tra gli elementi della trilogia e quelli di questo nuovo capitolo. Ecco il nuovo Morpheus, ecco il nuovo agente Smith, questo è Neo oggi e questa è Trinity che si chiama Tiffany… Matrix Resurrections è un film su Matrix e sull’impatto che Matrix ha avuto sulla cultura popolare negli ultimi vent’anni, e solo in seconda battuta è un film sul ritorno dentro la Matrice e su un nuovo episodio nella guerra infinita tra uomo e macchina. E questo è apprezzabile, perché è una scelta autoriale forte ma anche un’apertura altrettanto potente al dialogo tra creatrice e pubblico – che poi questo dialogo si svolga in gran parte sotto forma di sfottò e sfoghi da nonno Simpson è un altro discorso, è una scelta e non ci sentiamo di contestarla a prescindere, solo a far sommessamente notare che uno dei motivi del flop di Matrix Resurrections potrebbe anche essere questa sua estrema ostilità ai suoi stessi fan.
Il punto è: la natura metanarrativa, metacinematografica e in generale meta- di Matrix Resurrections finisce per affogare quelle belle idee di, ancora, worldbuilding che avrebbero forse meritato maggior fortuna, e l’avrebbero avuta in un film più classicamente fantascientifico e meno postmoderno di questo. Ce n’è una in particolare che colpisce perché è l’idea centrale intorno a cui ruota tutta la storia, ma viene introdotta, spiegata e prontamente dimenticata nel giro di un paio di scene. Ci riferiamo al fatto che, in questa nuova versione di Matrix, il nuovo dittatore meccanico genera l’energia che gli serve non sfruttando la passività assoluta e il semplice metabolismo degli esseri umani, ma usando frizioni, conflitti e dolore.
Il mondo di Matrix, inteso come il mondo dentro la matrice per come ci veniva presentato nel primo film, era un mondo distopico ma teoricamente perfetto, più Il mondo nuovo di Huxley che 1984 di Orwell: puntava sullo stordimento dei sensi e sull’assuefazione per mantenere la sua illusione, non su regole, divieti e autoritarismo. L’idea delle macchine era che, se fossimo stati tutti sempre perennemente felici e soddisfatti dentro la matrice, non avremmo mai alzato la testa, ci saremmo accontentati di una realtà artificiale non avendo idea della sua vera natura, e avremmo continuato ad alimentarle, generando energia e mai problemi. Abbandonare il Truman Show, quindi, era prima di tutto una questione di principio: meglio vivere male ma liberi che da schiavi in una realtà artificiale, per quanto teoricamente da sogno.
Matrix Resurrections riconosce però qualcosa che, curiosamente, è stato ripreso di recente anche da Barbie, e cioè che il loop perfetto è la scorciatoia più breve verso la follia; che ripetere ogni giorno le stesse azioni, vivere senza frizioni o contrasti ma anche senza guizzi, è peggio che vivere in un mondo reale che prevede anche litigi, dolore, lutto. L’umanità è caotica, dice questo quarto capitolo, e se la metti in un sistema perfetto riuscirà sempre e comunque a trovare il modo di incasinarlo. È sciocco e controproducente provare a programmare gli esseri umani: è meglio immergerli in una realtà confusionaria quanto loro, lasciarli liberi di esprimere anche emozioni negative. Lasciare, insomma, che il loro unico custode sia l’entropia.
È l’intuizione più brillante di Matrix Resurrections e per questo è un peccato che venga sprecata, trasformandola in una delle tante funzioni narrative al servizio di Neo e Trinity, che da quando si riuniscono diventano l’unico cuore del film. L’impressione è che da qualche parte nel multiverso esista un’altra versione di Resurrections che racconta lo stesso nuovo capitolo della guerra tra uomo e macchina ma lo fa usando esclusivamente protagonisti nuovi (vanno bene quelli che già ci sono), limitandosi a tenere le figure storiche sullo sfondo. È una versione che dedica molto più tempo a raccontarci la vita dopo la guerra, sessant’anni dei quali intravediamo soltanto le conseguenze, in quelle sequenze nel mondo reale che durano sempre e comunque troppo poco, e ci fanno vedere solo scampoli di questa nuova Terra.
Un’altra idea che avrebbe meritato maggior fortuna è la convivenza tra umani e almeno alcune delle macchine, che hanno sotterrato l’ascia di guerra e hanno deciso di puntare sull’integrazione. La trilogia originale insisteva molto sulla confusione tra reale e digitale, sull’intelligenza delle macchine e la loro vera o presunta superiorità dettata dalla perfezione della loro programmazione. Matrix Resurrections avrebbe l’occasione di approfondire questo discorso, ma lo spreca trasformando le macchine “buone” in creature da film Pixar, buffe e carine ma senza alcuna forma di vera personalità al di là di quella data dal loro design.
Ci rendiamo conto che stiamo commettendo uno dei peccati capitali della critica cinematografica, quello cioè di valutare un film per quello che avrebbe potuto essere e non per quello che è. Ma il punto è che Matrix Resurrections sembra un film intenzionato ad autosabotarsi, a fare il possibile per essere solo ed esclusivamente un metafilm svalutando in questo modo tutte le sue intuizioni narrative, quasi ci tenesse a non essere preso troppo sul serio. Il suo problema è che è stato preso molto in parola.