Matrix e il cyberpunk: una storia complicata
Matrix è tante cose, tra cui un film cyberpunk: poteva segnare la rinascita del genere, invece è andata diversamente
Non utilizziamo il termine nella sua accezione negativa, anzi: l’equilibrio quasi perfetto tra la miriade di fonti, generi, ispirazioni e filosofie che compongono il mosaico di Matrix è probabilmente la sua caratteristica più importante, e quella che ancora oggi fa un effetto incredibile – più ancora delle coreografie da wuxia e dei monologhi dell’Agente Smith. Matrix è un polpettone, inteso come amalgama di ingredienti di vario genere frullati insieme senza troppo riguardo, perché così fu concepito dalle Wachowski. Un film di fantascienza cyberpunk orientaleggiante rivolto a chi ama le arti marziali ma anche a chi ama i videogiochi ma anche a chi ama l’ipotesi della simulazione di Nick Bostrom e i romanzi di Philip Dick e William Gibson, che è servito come modello per molte opere successive e ha permesso più o meno indirettamente a certi generi e certe estetiche di diventare mainstream.
Cyberpunk
Se avete letto il titolo del pezzo l’avrete già capito: l’anima di cui parliamo è quella cyberpunk, che a differenza di quella filosofica, di quella marzialistica, di quella wuxia/wire-fu-istica, di quella supereroistica, di quella videogiochistica, ha fatto pochissima scuola e avuto pochissimi figli. Il che da un lato è curioso, perché Matrix è uscito a poche settimane dall’arrivo del Millennium Bug e ha contribuito a inaugurare un decennio, poi diventato ventennio, nel quale la tecnologia ha cominciato a correre ancora più velocemente di quanto non avesse fatto fin lì. Dall’altro è prevedibile, perché uno dei difetti che si possono attribuire a Matrix è di aver parlato di certi argomenti, e affrontato certi sottogeneri, con un po’ di ritardo, abbastanza da renderli istantaneamente obsoleti.
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La definizione di cyberpunk è talmente sfuggente che non è azzardato affermare che forse non è mai davvero esistita una “scena” cyberpunk – solo un gruppo di persone che spesso si conoscevano e che, nelle parole di Bruce Sterling, facevano a gara tra di loro per chi fosse più ballardiano. Tra Neuromante di Gibson e Snow Crash di Neil Stephenson, che sta al cyberpunk come Gli spietati di Clint Eastwood sta al western, passano meno di dieci anni: in ossequio alla seconda parte del suo nome, il cyberpunk fu un’esperienza breve, violenta e ribelle, che lasciò dietro di sé una scia di grandi idee e un’infinita serie di sotto-sottogeneri e variazioni sul tema che, in molti casi, sono rapidamente degenerate fino a diventare contenitori vuoti con un’estetica ma pochissime idee – lo steampunk era sostanzialmente morente fino all’uscita di Arcane, il biopunk è stato un esperimento fantastico e già quasi dimenticato, il dieselpunk è talmente poco definito che gli stessi autori non sono convinti di stare scrivendo dieselpunk…
Cosa c’entra tutto questo con Matrix? C’entra perché il film è intriso di cyberpunk in ogni fibra e in ogni linea di codice. Ne ricalca quasi tutti gli archetipi, dall’improbabile eroe che viene dal mondo tech ma si sente un outcast all’estetica marcia e decadente fino all’idea di un mondo virtuale talmente realistico da confondersi con la realtà; ma li innesta sull’idea un po’ da Truman Show (o da ipotesi della simulazione, appunto) che questa realtà alternativa esista a nostra insaputa, e che tutto quello che vediamo intorno a noi non siano altro che ombre sulle pareti di una caverna, per rubare la metafora al famoso autore cyberpunk Platone. E lo faceva nel 1999, quando il cyberpunk era tutto tranne che di moda e la fantascienza cinematografica si stava spostando altrove ormai da tempo – quell’anno solo Cronenberg con Existenz uscì con qualcosa di vagamente associabile al cyberpunk e alle idee di Matrix.
Dopo Matrix il nulla
E invece, dopo Matrix e i suoi due sequel c’è il nulla. O meglio, c’è qualcosa, ma è quasi sempre un disastro. Ultraviolet, Aeon Flux, Babylon A.D., Il mondo dei replicanti… tutti film che esistono grazie a Matrix e che vorrebbero muoversi circa nello stesso spazio creativo, ma che non hanno nulla di interessante da dire sull’interfaccia uomo-macchina, sui confini sfumati tra reale e virtuale o sul tardo capitalismo e le megacorporazioni. Matrix ha convinto la gente a esportare con convinzione il wuxia, sdoganato la superstar che vola e fa le piroette e tira i calci volanti, fatto proseliti da un estremo all’altro dello spettro politico, eppure non è riuscito a riportare in auge il cyberpunk fatto come si deve, nonostante sia uscito alla vigilia dell’epoca dei social, delle dirette costanti e anche dei primi veri caschi per la realtà virtuale.
E secondo noi è proprio quest’ultimo esempio che è ideale per spiegare come mai gli spunti cyberpunk di Matrix non sono mai andati da nessuna parte. Al tempo di Neuromante o di Blade Runner, ma anche di un film rivoluzionario e precursore come Il tagliaerbe, l’idea di un casco per la realtà virtuale (e di una realtà virtuale indistinguibile da quella reale) aveva ancora i contorni del mito, di quella roba che si erano inventati in Star Trek con l’Holodeck ma che nel mondo reale non si sarebbe vista prima di qualche decennio se non di qualche secolo. Persino Internet, che esisteva già da un po’, era ancora ben lontana dall’incubo distopico che è diventata oggi, ed era più che altro un’idea, uno spazio di possibilità intorno al quale Gibson e compagnia costruirono le loro realtà alternative.
Il cyberpunk e il presente
Oggi invece la realtà virtuale esiste, e funziona anche discretamente bene; e al contempo conosciamo meglio i limiti nostri e della tecnologia, e sappiamo che la realtà virtuale immaginata da Gibson, o più di recente da Ernst Cline in Ready Player One (è un romanzo/film cyberpunk? Discutiamone), è ancora di là da venire. Non impossibilmente lontana, non come un viaggio spaziale per un gentiluomo di inizio Novecento, ma abbastanza lontana da non eccitarci più come quando trent’anni fa era un’utopia. Arriverà, prima o poi, e probabilmente ci saremo, e già sappiamo come sarà e possiamo immaginarci i suoi problemi: in poche parole, l’idea non è più abbastanza fantascientifica, e non essendo ancora neanche realtà ha un po’ perso di fascino e interesse.
Lo stesso vale per molte altre idee tipicamente cyberpunk che ci sono in Matrix, dagli inserti cerebrali che ti insegnano il kung-fu agli aspetti più orwelliani della vita nella Matrice. Sono tutte questioni a cui Matrix arrivava in ritardo, e soprattutto che sono state rapidamente superate a destra dalla realtà. Oggi la fantascienza che porta la gente in sala è quella alla Interstellar, che parla di viaggi spaziali e di fuggire da un pianeta morente. Tanti pezzi della distopia collettiva cyberpunk sono ormai diventati vita quotidiana, e anche chi se n’è accorto ha imparato ad accettarli. E infatti, dal 1999 a oggi, il significato stesso di Matrix è cambiato: oggi pochissima gente lo descriverebbe come un film cyberpunk, e si soffermerebbe piuttosto sui suoi aspetti simbolici e sui secondi e terzi livelli di lettura.
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Non è neanche del tutto colpa del film, e anzi a onor del vero bisogna riconoscere alle Wachowski una certa lungimiranza quando nel 2003 dissero che la storia di Matrix non era più loro, ma passava nelle mani dei giocatori coinvolti in Matrix Online: era l’unico modo per tenere viva in qualche modo l’eredità più strettamente cyberpunk dell’opera, spostandola su un medium nel quale c’era ancora spazio di discussione. L’esperimento fallì, e il risultato fu che il franchise che avrebbe potuto dare il via a una seconda epoca d’oro del cyberpunk si trasformò invece nella sua tomba.