Matrix 20 anni fa ha tradotto il cinema orientale per il pubblico occidentale creando il nuovo blockbuster

Non ci era riuscito nessuno fino a quel momento, ce la fecero i Wachowski con Matrix e cambiarono tutto

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Nel 1999 Matrix era il primo film dai tempi di Guerre Stellari ad essere stato seriamente pensato come un mondo.
Matrix era una mitologia non in quel senso animistico che i sequel ci avrebbero raccontato con una confusione intollerabile, ma nel senso che costumi, oggetti, stanze, color correction, arredi, tecnologie, nomi e design erano coerenti, pensati per esprimere l’evoluzione di una storia, tutto figlio degli eventi narrati. In questo (e non solo) Matrix era concepito nella stessa maniera in cui era stato generato Guerre Stellari. Diversamente dal film di Lucas era pensato non per fondere tradizione e modernità (western, samurai, fantasy e fantascienza) ma per tradurre la spettacolarità del cinema orientale al pubblico occidentale.
E questo era il principio della sua rivoluzione.

Non ci era riuscito Van Damme, non ci era riuscito Jackie Chan e nemmeno Bruce Lee ai suoi tempi, il combattimento corpo a corpo tecnico, espressionista o stilizzato ma comunque rapido e sofisticato non era mai riuscito ad arrivare ad essere al centro dell’azione nel cinema americano. Quando lo era si trattava di film di serie B e non di grandi produzioni. Matrix riuscì a tradurlo perché il pubblico americano lo capisse e ne godesse, da lì chiunque volle un coreografo orientale e usare dei cavi per tenere sollevati gli attori e gli stunt. Il cinema d’azione in cui il corpo del protagonista deve fare (o dare l’impressione di aver fatto) qualcosa di tecnicamente pazzesco da Matrix in poi diventa la regola.

Il film uscì nel 1999 (e non ci poteva essere anno più significativo, la fine di un’era, l’inizio di un’altra) ma i Wachowski ci lavoravano sopra dal 1992 (quando ancora l’idea era di farne un fumetto), 7 anni di preparazione, bozzetti e idee. Soprattutto idee, loro stessi ebbero a dire di averci infilato dentro letteralmente tutto quello che avessero mai ideato, tutto quello a cui avessero mai pensato fino a quel momento (punto in comune con Pulp Fiction che nella testa di Tarantino doveva contenere tutto il suo cinema di riferimento, dal primo all’ultimo film).
Con tutti questi film Matrix ha in comune una personalità potentissima, il fatto di essere totalmente dentro il proprio tempo (i film labirinto in cui la realtà è una matassa da sbrogliare e il pubblico è sfidato a capire cosa accada) e contemporaneamente presentarsi come unico. Unico visivamente per un uso della color correction molto radicale (per quanto non inedito) e per quello che si chiama camerawork, tutto quello che fai con la videocamera. Tutto a mano.

Matrix è sostanzialmente un film digitale girato in analogico. Non solo racconta di questioni di bit e byte (una realtà simulata creata da intelligenze artificiali abitata dalle coscienze di persone che non sanno di vivere una simulazione) ma usa tecniche ed effetti prettamente digitali che tuttavia erano realizzati in maniera analogica! Tutti oggi lo fanno con il computer loro lo facevano a mano.
Il bullet time, la loro creazione più iconica, imitata, nota e caratterizzante, è di fatto una maniera di fingere che quel che vediamo sia uno spazio virtuale perché l’azione si svolge ad una velocità diversa da quella a cui si muove la videocamera. Oggi si fa con facilità perché un ambiente virtuale con immagini reali non è complicato da creare, ma all’epoca (come noto) era fatto mettendo una accanto all’altra diverse macchine fotografiche, tutte intorno agli attori, che scattavano foto in sequenza mentre loro si muovono. Affiancando quelle foto come fotogrammi una dopo l’altra si ottiene l’effetto.

Il bullet time era quella trovata visiva che il pubblico non aveva (quasi) mai visto prima e che non sapeva nemmeno spiegarsi, è una firma unica che dona una personalità pazzesca alla messa in scena. E non solo, parla anche della natura ibrida di quel che vediamo. Perché il mondo di Matrix effettivamente è una realtà virtuale ed esplorarla in questa maniera impossibile nella realtà aiuta a spiegarlo non con le parole ma visivamente. Lo stesso vale per tutti i cieli corretti per essere bianchi e non blu o per il fatto che dentro Matrix tutto ha una color correction verde acido, marcia, respingente. Oggi con le color correction molto pesanti ci viene girato qualsiasi film, all’epoca era unico e serviva la trama.

Come per Guerre Stellari anche qui il grandissimo successo di questo film-mondo che ha cambiato così tanto le coordinate del cinema d’azione da costringere il resto di Hollywood ad adeguarsi (e in fretta), è frutto della collaborazione di una serie di talenti immensi che i Wachowski erano riusciti ad intercettare, in primis i designer Steve Skroce e poi Geoff Darrow, veri artisti che avevano concepito tutto il design del film lavorando ad uno storyboard che sarebbe stato seguito praticamente alla lettera. Era infatti indispensabile una pianificazione esatta per poter eseguire con un budget non stellare effetti speciali fuori dalla grazia di Dio, molti dei quali inventati per l’occasione e in modi che nessuno nella crew sapeva fare.

Furono i costumi e gli occhiali infatti a far innamorare i produttori della Warner, i quali diedero il via alla produzione senza aver nemmeno capito bene la trama. Ma del resto nessuno l’aveva compreso. Racconta Chad Stahelski, regista di John Wick  che all’epoca era la controfigura di Keanu Reeves (uno dei mille talenti che lavoravano al film), che quando finalmente anche lui ricevette la sceneggiatura la lesse tutta senza capire niente, girò tutto questo film che fu la produzione più complicata faticosa e probante della sua vita senza aver capito niente. Solo al cinema quando lo vide capì cosa fosse. E questa opacità fu uno strano segreto del successo del film, promosso come qualcosa di oscuro da scoprire, non anticipato da niente perché girato lontanissimo, in Australia (conveniva per agevolazioni fiscali) là dove nessuno poteva spiare o far uscire notizie. Di Matrix non si sapeva letteralmente niente di niente. Toccava andare a vederlo in sala.
A portare avanti il film era stata la meticolosa mania dei Wachowski, la maniera in cui controllavano, provavano e non mollavano su nemmeno un dettaglio.

Sempre Stahelski in una bella intervista data a Vulture in occasione di questo ventennale dice: “Quando mi allenavo con Keanu e con tutto il team di coreografi di Hong Kong dovevamo memorizzare tutto. Era davvero faticoso. E i Wachowski erano a dir poco meticolosi. Lo storyboard aveva centinaia di pagine, ce l’ho ancora e non scherzo quando dico che è esattamente identico al film. Forse qualche stacco di montaggio è un po’ diverso ma è così ben fatto e pensato da essere identico al film finito. Chiunque abbia lavorato con i Wachowski e sia ancora sano di mente è stato per sempre influenzato positivamente da loro”.

E lui di certo. Tale fu il successo del film e la richiesta di stunt-men e coreografi di arti marziali che con l’esperienza maturata aprì una società con diversi dipendenti. Stahelski era stato infatti il principale recettore di Yuen Woo-Ping, leggenda del cinema d’arti marziali (è il regista di Drunken Master, per dirne solo una) che aveva non solo concepito le coreografie ma scelto le controfigure in massacranti provini che Stahelski ancora ricorda.

Il secondo segreto era Keanu Reeves, all’epoca già una strana incarnazione dell’eroe d’azione, non duro come quelli degli anni ‘80, non sbruffone come Bruce Willis, ma sensibile. Point Break l’aveva lanciato in quella direzione e Matrix l’avrebbe confermato. Spirituale, sensibile, difficile ed emaciato. Il suo personaggio parte come un grigio impiegato e finisce a volare come Superman nell’ultima inquadratura (la più ingenua, naif e quasi ridicola del film).

È un film di questioni di cuore, di credo, sul rovesciare un sistema, sulle cause e gli effetti, sulle filosofie che esaminano la vita e su una società compassionevole, su una coscienza compassionevole! Ed è così in ogni cazzo di fotogramma!” questo era Keanu Reeves sul set di Matrix intervistato da Empire, invasato del film e da quello che raccontava (chissà se almeno lui l’aveva capito!). Aveva letto Simulacri e simulazioni di Baudrillard, Fuori controllo di Kevin Kelly e Evolutionary Psychology di Evans e Zarate. Ci stava dentro con tutti e due i piedi e lo cavalcava al massimo.

Lui era perfetto e il suo personaggio era inedito.

A differenza di qualsiasi altro film dell’epoca questo grigio impiegato è un programmatore. Non era un nerd, era un impiegato che sente che c’è qualcosa di più rispetto alla sua realtà. All’epoca (ma pure oggi) i programmatori erano sempre nerd, il loro lavoro li caratterizzava come persone. Invece in Neo il lavoro non influisce nel carattere, comprendere il linguaggio del computer non gli dà nessuna caratteristica. Per assurdo che possa sembrare scriverlo, era una sorpresa che “nonostante” fosse un programmatore quel personaggio fosse anche una persona normale, né sfigato né potente. Uno comune e programmare era un lavoro come un altro, utile alla trama ma non alla personalità.

Il successo fu incredibile ma quello che era stato evidente a chiunque lavorasse nel cinema era che quel paradigma era quello nuovo, che quella maniera di concepire le storie come un mondo (l’alba della mania per i franchise) e di farlo con quell’influenza della postproduzione era il futuro.
La trama poi era il gancio ed era abbastanza consueta (in fondo sono macchine che si ribellano agli uomini con una realtà virtuale di mezzo), era la spiritualità che la contaminava a cambiare tutto a dargli una patina filosofica molto semplice ma anche evidentemente efficace.

La prova della genuinità di quella visione, cioè dell’idea che esista una realtà intangibile propria della comunicazione via computer che influenza la vita reale e tangibile è tutta misurata nel successo delle frasi del film (con in testa “pillola blu, pillola rossa” per indicare la dualità della realtà che viviamo) fino a quello della stessa parola Matrix.
Ad oggi Matrix (nel linguaggio giornalistico americano) indica quel che accade online e come la realtà di internet si sovrapponga a quella reale, influenzandola. Sono “the matrix” i bot sui social, gli hacker russi (qualsiasi cosa voglia dire quest’espressione), è the matrix il complesso di aziende e giganti telco che regolano economia e politica, è the matrix tutto ciò che non capiamo benissimo ma sappiamo originarsi online e avere ricadute nel reale. quell’opaca patina di “sistema” che non possiamo più ricondurre a grigi uomini politici ma che vediamo sui nostri schermi.

Continua a leggere su BadTaste