Manhunt: Unabomber e Mindhunter: due facce della stessa medaglia

Piccolo confronto a distanza tra Mindhunter e la meno conosciuta, ma altrettanto valida, Manhunt: Unabomber

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Non fosse per lo stile completamente diverso che le caratterizza, Mindhunter e Manhunt: Unabomber potrebbero essere considerate come due stagioni diverse di una serie antologica dedicata al criminal profiling. Tanto simile è il tema di fondo quanto diverso è infatti l'approccio alla materia. Si va dall'analisi, fortemente caratterizzata dal punto di vista estetico e registico, della serie di Netflix dall'impronta fincheriana, allo svolgimento più televisivo – per quanto qualche sorpresa ci sarà anche qui – della miniserie di Discovery. Al di là di tutto si tratta di due ottimi prodotti, e se Mindhunter, anche grazie ai nomi coinvolti, ha avuto più spazio sotto i riflettori, Manhunt: Unabomber è quel tipo di progetto solido, ben scritto, ben interpretato, capace di ritagliarsi da solo uno spiraglio di interesse.

Innanzitutto le somiglianze. Ad un primo sguardo sono molte, e non si tratta solo di un logico accostamento tra show che utilizzano l'attività del profiler di menti criminali come motore dell'intreccio. Entrambe infatti vanno oltre il semplice aggancio “accademico” o teorico alla materia, e costruiscono qualcosa che è innanzitutto radicato sulla storia che si vuole raccontare. Una storia che in entrambi i casi prende spunto da fatti reali e quindi è ambientata nel passato. Nel primo caso Mindhunter rappresenta il fondamento dell'analisi dei profiler. Ambientata alla fine degli anni '70, fonda il grado zero dell'analisi dei comportamenti criminali, non più come elementi estranei alla società, ma come mali endemici che in quella stessa società trovano un fondamento. L'ambientazione negli anni '70 ha un forte significato, soprattutto alla luce dell'ambientazione statunitense. C'è infatti il fantasma di Charles Manson dietro tutto, e grande importanza avrà il confronto tra il protagonista Holden Ford (Jonathan Groff) con il killer Edmund Kemper (Cameron Britton). Come facilmente intuibile, in Manhunt: Unabomber invece il confronto - più serrato - è con il pluriomicida responsabile di aver inviato in un arco di circa venti anni numerosi pacchi bomba.

Le differenze riguardano soprattutto le tematiche in gioco. Scrivevamo nella nostra recensione di Mindhunter come questa serie sia infatti testimone del crollo degli ideali che investe in modo trasversale l’intera cultura americana a cavallo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70. Un mondo in cui le strutture sociali e politiche e i baluardi storici della tradizione americana sono crollati sotto il peso di rivoluzioni dei costumi, scandali, guerre. Ripartire da tutto questo si può, ma per farlo occorre sporcarsi le mani e considerare il male come qualcosa di interno, da elaborare e capire. Ecco, Manhunt: Unabomber ripartirà idealmente da qui. La miniserie in otto puntate ricostruisce le vicende che portarono alla cattura del killer (interpretato da Paul Bettany). Anche in questo caso la prospettiva è quella del profiler, interpretato da Sam Worthington, determinante per la cattura del criminale.

Anche in questo caso si tratta di una serie che, al di là dell'ovvio lavoro di ricostruzione storica – ci troviamo negli anni '90 – lavora in prospettiva, anche da un'ottica interna alla serie, sui grandi mutamenti sociali e tecnologici. In Mindhunter avevamo, come detto, gli effetti di una società in pieno fermento, sconvolta, ma anche ansiosa di trovare nuove prospettive per capirsi. Manhunt: Unabomber, e il pensiero del killer protagonista, sono invece figli di una cultura di fine millennio. Una cultura che ha superato la divisione tra bene e male, forse più egoista, forse meno capace di riflettere e più destinata a subire derive consumistiche e ipertecnologiche. Grande spazio viene infatti lasciato al famoso manifesto di Unabomber, nel quale viene aspramente criticata la civiltà industriale, che avrebbe nelle sue stesse fondamenta le ragioni del suo profondo disagio.

E proprio nel momento in cui siamo convinti che tutto si ridurrà ad una classica sfida a distanza con climax inevitabile, la serie chiude quel momento tra due parentesi molto intense. Si tratta di due episodi interamente incentrati sul personaggio del killer che danno una chiave di lettura più profonda alla serie. Al di là dei punti in comune e delle differenze, Mindhunter e Manhunt: Unabomber sono due ottimi titoli del 2017, meritevoli di essere recuperati.

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