Mamma ho perso l'aereo: la casa dei McCallister era come la giungla di Predator | BadBuster

Casa McCallister in Mamma ho perso l'aereo è un habitat da difendere contro gli invasori: ne parliamo nel nostro special che celebra anche John Hughes

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Il luogo dove le firme della nostra redazione vi racconteranno, a turno, cosa hanno deciso di recuperare “passeggiando fra gli scaffali” delle varie piattaforme streaming o della loro collezione personale. A voi non resta altro che aggiungere mentalmente l’odore di pop-corn caramellato e di moquette usurata tipici di un’epoca ormai andata. E che alcuni di voi potrebbero addirittura non aver mai vissuto.


Non so quale sia il motivo che possa portare una persona a vedere e rivedere ossessivamente un dato film.

Immagino che, come nel mio caso, la molla che fa scattare il meccanismo possa essere imprevedibile. Stai parlando della portabilità delle mascherine chirurgiche rispetto alle ffp2 senza valvola in queste roventi giornate estive e, qualche ora dopo, sei davanti alla televisione a guardare per la centocinquantesima volta Mad Max: Fury Road perché, misoginia a parte, Immortan Joe è un esperto in materia. Sì, il suo è più un respiratore, ma non stiamo qua a guardare il capello, suvvia.

Oppure stai scrivendo una notizia sul set LEGO della casa dei McCallister che, nei prossimi mesi, verrà commercializzato dalla multinazionale danese e, a dispetto della temperatura ben poco natalizia, come aperitivo alla gita serale nella derelitta Seattle di The Last of Us Parte II fai partire su Disney+ Mamma ho perso l'aereo. Perché un po' non vedi l'ora di poter comprare Mamma ho Perso l'Aereouna versione in scala dell'abitazione del piccolo Kevin composta da qualche migliaio di mattoncini colorati, un po' perché è uno di quei film che hai visto innumerevoli volte, ma che non ti stancano mai, un po' perché 30 anni fa – 29 a essere pignoli considerato che in Italia arrivò un paio di mesi dopo che negli States, ergo nel 1991 – il sottoscritto, come ogni coetaneo del pianeta, desiderava ardentemente vivere un'avventura come quella di Kevin McCallister.

Sì, nonostante abitassi in Italia, in una zona che non aveva niente a che vedere con i sobborghi di Chicago e nonostante il costo dei biglietti aerei nei primi anni novanta facesse sì che per un ragazzino italiano vedere una famiglia così numerosa alle prese con un volo intercontinentale fosse più incredibile della prospettiva di imbattersi con la versione “buona” di un T-800 in un centro commerciale, Mamma ho perso l'aereo era la classica produzione che azzerava qualsiasi concetto di distanza geografica fra i bambini del tempo.

Tanto per cominciare, Kevin McCallister, mio coetaneo, elemento che facilitava ulteriormente il transfert, aveva una casa fichissima.

Con un seminterrato terrificante tanto che anche adesso, dopo 29 anni, provo un sottile senso d'inquietudine quando scendo in garage a fare il bucato o l'asciugatrice.

Ma comunque fichissima.

Una casa che il film sfruttava così come John McTiernan usava la giungla in Predator. Con esiti che, in quanto a violenza, non avevano quasi nulla da invidiare al tipico action movie della fine degli anni ottanta. Era un habitat potenzialmente ostile per qualsiasi invasore con intenzioni poco amichevoli.

Non c'erano tubi che trafiggevano da parte a parte la gente, ma c'erano delle one liner ficcanti prese da un inesistente film noir in bianco e nero con davvero nulla da invidiare a grandi classici come “Avevi la pressione troppo alta Bennett”.

E a pagarne le conseguenze non era tanto il malcapitato fattorino della pizza di Little Nero's (anche se 11,80 dollari per una pizza potevano essere percepiti come un furto da un italiano tanto da giustificare un po' di vessazioni).

Erano i poveri topi d'appartamento di Joe Pesci e Daniel Stern, Harry e Marv, vere e proprie vittime sacrificali di un bambino che usava l'ambiente domestico come un'arma di difesa. In guerra, la conoscenza del territorio è tutto. E la magione dei McCallister stava a Kevin come la giungla al predatore spaziale di John McTiernan solo che né Pesci né Stern, per ovvie motivazioni narrative (erano comunque i cattivi!), potevano trasformarsi in parenti, anche alla lontana, di Dutch Schaefer. Il loro scopo era quello di diventare carne da macello per le trappole elaborate da Kevin e, al massimo, potevano ambire a essere delle versioni umane dei personaggi dei Looney Tunes, degli Elmer Fudd perennemente destinati a vedersi esplodere in faccia il fucile perché Bugs Bunny è e sarà sempre un passo avanti.

Se avete qualche dubbio su quanto Mamma ho perso l'aereo sia cartoonescamente violento, roba da far impallidire film coevi più espliciti come un Atto di Forza a caso, recuperate questo video di ScreenJunkies dove, con l'aiuto di un medico, vengono elencati tutti i traumi dei due ladri e le volte in cui, a essere pignoli, sarebbero dovuti morire.

Mamma Ho Perso L'aereo

Poi, e qua potrebbero aprirsi le cateratte dei ricordi, quindi cercherò di darmi un contegno, Mamma ho perso l'aereo è stato il canto del cigno del regista che, insieme a Steven Spielberg, ha plasmato la mia infanzia: John Hughes.

Sono così ossessionato con John Hughes che per me l'America “del cinema” non è New York, non è Los Angeles, non è la sterminata frontiera del far west.

È Chicago.

La capitale del midwest.

La metropoli dove Ferris Bueller, Cameron e Sloane si prendono una meritata giornata di vacanza alla faccia del preside Rooney.

Quella nel cui suburbio è cresciuta la Andy Walsh di Molly Ringwald, di cui resterò per sempre invaghito nei secoli dei secoli, amen.

La città dove, il 24 marzo del 1984, John, Andy, Brian, Claire e Allison sono costretti a trascorrere un sabato rinchiusi fra le mura della loro scuola come punizione e si ritrovano a dover rispondere alla temibile domanda che il preside Vernon ha posto loro come tema: “Chi sono io?” (e la citazione arriva spontanea “un cervello, un atleta, un'handicappata, una principessa e un criminale. Distinti saluti, il Breakfast Club").

Chissà, forse è per questo che l'anno scorso, quando si poteva ancora viaggiare senza avere l'impressione di vivere nel sequel brutto di Contagion, una volta atterrato all'O'Hare mi sono letteralmente commosso.

Non tanto perché stavo per partecipare alla Star Wars Celebration. Piuttosto perché sapevo che, appena possibile, avrei passeggiato per le vie di una città che uno dei miei padri putativi mi aveva fatto visitare così tante volte, in occasioni sempre diverse.

Magari ad accogliermi non avrei trovato una parata e dei ballerini alle prese con Twist & Shout, ma sapere di trovarmi, finalmente, nella città di Kevin McCallister (e Michael Jordan, ma questa è un'altra storia per, chissà, un altro giorno) era più che sufficiente.

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