Making a Murderer vs. American Crime Story: tra manipolazione e verità
Due delle serie più interessanti degli ultimi tempi, tra differenze e punti in comune: un confronto tra Making a Murderer e American Crime Story
Dal 2017 sono Web Content Specialist l'area TV del network BAD. Qui sotto trovi i miei contatti social e tutti i miei contenuti per il sito: articoli, recensioni e speciali.
Making a Murderer (la recensione) è un documentario in 10 parti disponibile su Netflix dallo scorso dicembre. Racconta la storia di Steven Avery, rinchiuso ingiustamente in carcere per 18 anni per un crimine di violenza sessuale mai commesso. Nel 2005 viene ancora accusato, stavolta per omicidio, e le prove sembrano schiaccianti. Il documentario di Laura Ricciardi e Moira Demos ricostruisce dieci anni dopo le fasi del processo, sostenendo la tesi dell'innocenza dell'uomo (il titolo dice tutto) e l'idea che Avery sia stato incastrato dalle stesse forze dell'ordine, forse per ripicca, forse per evitare le spese del risarcimento.
Dibattere di innocenza o colpevolezza qui è fuoriluogo. Non perché chi scrive – che è prima di tutto uno spettatore – non abbia un'opinione, anzi sarebbe assurdo non averla. Assurdo perché il senso di queste due opere, così simili e così diverse al tempo stesso, è proprio quello di vivere al di fuori di loro stesse, avere un impatto su chi le osserva, formando e intrattenendo al tempo stesso. Non si può guardare queste due serie come puro intrattenimento, senza rispondere in modo emotivo: poi si potrà essere d'accordo con i due punti di vista, o magari con i verdetti, oppure contrari all'uno o all'altro. Quello che ci interessa è allora il linguaggio utilizzato.
Se nella serie la congiura è un atto dispregiativo denunciato dall'accusa, allora l'occhio dell'autore ci invita a non cadere nel tranello, se la congiura invece fa parte della tesi della difesa sposata in pieno dall'autore del documentario, allora non esistono filtri né contrasti, e tutta la forza del dubbio deve ricadere sulle spalle dello spettatore. Come scrivevamo nella recensione del documentario, il labor limae condotto in fase di montaggio da Laura Ricciard e Moira Demos è davvero apprezzabile, eppure in più di un momento questo pezzo di televisione che vive al confine tra new journalism, inchiesta, racconto appassionato, finisce per fagocitare se stesso.
Il discorso è anche più ampio, in realtà si tratta semplicemente di tendere a parteggiare (è un brutto termine da accostare a casi di cronaca nera, ma è la loro spettacolarizzazione a renderci quasi "tifosi") per le parti più deboli o destinate a perdere. Più in generale si tratta di mettere in dubbio l'agire del sistema giudiziario, soprattutto nel momento in cui questo perde la sua presunta oggettività e viene risucchiato in un sistema, che è anche culturale e sociale, più istintivo e parziale.