Making a Murderer vs. American Crime Story: tra manipolazione e verità

Due delle serie più interessanti degli ultimi tempi, tra differenze e punti in comune: un confronto tra Making a Murderer e American Crime Story

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Documentari più simili alla finzione e trasposizioni più simili alla realtà. Di ciò che è l'oggettività, di quali siano i limiti della verità e degli obiettivi che un prodotto più o meno artistico dovrebbe proporsi avevamo già detto nel momento in cui abbiamo trattato le due serie Making a Murderer e American Crime Story. Quali sono le responsabilità di un autore, anche di uno televisivo, di fronte alle responsabilità della storia e della giustizia, anche di fronte alle vittime e ai, presunti, carnefici? Un racconto a tesi, cioè uno che si propone come dichiaratamente parziale, basta a giustificare se stesso, o deve sempre e comunque cercare la verità? Ma alla fine, questa verità, cos'è?

Making a Murderer (la recensione) è un documentario in 10 parti disponibile su Netflix dallo scorso dicembre. Racconta la storia di Steven Avery, rinchiuso ingiustamente in carcere per 18 anni per un crimine di violenza sessuale mai commesso. Nel 2005 viene ancora accusato, stavolta per omicidio, e le prove sembrano schiaccianti. Il documentario di Laura Ricciardi e Moira Demos ricostruisce dieci anni dopo le fasi del processo, sostenendo la tesi dell'innocenza dell'uomo (il titolo dice tutto) e l'idea che Avery sia stato incastrato dalle stesse forze dell'ordine, forse per ripicca, forse per evitare le spese del risarcimento.

American Crime Story: The People vs. OJ Simpson (la recensione), racconta uno dei processi più discussi di sempre, quello alla star di football accusata di aver ucciso Nicole Brown Simpson e di Ronald Goldman. Le prove sembrano schiaccianti, ma stavolta è la difesa a porre l'idea di un complotto delle forze dell'ordine, dovuto alle origini afroamericane della celebrità. Anche in questo caso, stavolta stiamo parlando di una serie tv, la visione non è imparziale, la ricostruzione abbraccia una tesi, quella della colpevolezza dell'uomo. Lo fa in modo più sottile, anche perché comunque esiste un verdetto che va rispettato, ma la caratterizzazione dei personaggi, il tono della storia, il finale inequivocabile, ci dicono che il punto di vista è quello.

Dibattere di innocenza o colpevolezza qui è fuoriluogo. Non perché chi scrive – che è prima di tutto uno spettatore – non abbia un'opinione, anzi sarebbe assurdo non averla. Assurdo perché il senso di queste due opere, così simili e così diverse al tempo stesso, è proprio quello di vivere al di fuori di loro stesse, avere un impatto su chi le osserva, formando e intrattenendo al tempo stesso. Non si può guardare queste due serie come puro intrattenimento, senza rispondere in modo emotivo: poi si potrà essere d'accordo con i due punti di vista, o magari con i verdetti, oppure contrari all'uno o all'altro. Quello che ci interessa è allora il linguaggio utilizzato.

È interessante che in due opere in cui si parla di presunta manipolazione lo sguardo dello spettatore sia continuamente indirizzato, ed è proprio dal confronto tra queste due che può emergere una riflessione. Tanto per fare un esempio, in entrambi i casi la vittima stessa passa in secondo piano, e tutto si concentra sull'accusato, e in entrambi i casi la tesi della difesa di fatto si allontana dal gesto in sé, dall'idea che comunque là fuori dovrà trovarsi il vero assassino, per concentrarsi su altri aspetti. Nel caso di Making a Murderer siamo portati verso un senso di pietà, nel caso di OJ Simpson verso la condanna. La differenza sta allora in chi "manipola" all'interno o all'esterno della storia.

Se nella serie la congiura è un atto dispregiativo denunciato dall'accusa, allora l'occhio dell'autore ci invita a non cadere nel tranello, se la congiura invece fa parte della tesi della difesa sposata in pieno dall'autore del documentario, allora non esistono filtri né contrasti, e tutta la forza del dubbio deve ricadere sulle spalle dello spettatore. Come scrivevamo nella recensione del documentario, il labor limae condotto in fase di montaggio da Laura Ricciard e Moira Demos è davvero apprezzabile, eppure in più di un momento questo pezzo di televisione che vive al confine tra new journalism, inchiesta, racconto appassionato, finisce per fagocitare se stesso.

Il discorso è anche più ampio, in realtà si tratta semplicemente di tendere a parteggiare (è un brutto termine da accostare a casi di cronaca nera, ma è la loro spettacolarizzazione a renderci quasi "tifosi") per le parti più deboli o destinate a perdere. Più in generale si tratta di mettere in dubbio l'agire del sistema giudiziario, soprattutto nel momento in cui questo perde la sua presunta oggettività e viene risucchiato in un sistema, che è anche culturale e sociale, più istintivo e parziale.

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