Magnolia usciva in Italia 20 anni fa: l'epica del quotidiano che ha rivisto le possibilità del cinema indie

Uno dei film più influenti dei nostri anni, Magnolia nasce per non rifare Boogie Nights e tutto intorno ai suoi attori, specie uno...

Critico e giornalista cinematografico


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IL 17 MARZO 2000 USCIVA IN ITALIA MAGNOLIA, DI PAUL THOMAS ANDERSON

È il 1997 e Paul Thomas Anderson si trova sul set di Eyes Wide Shut a Londra. L’ha invitato Tom Cruise perché poche sere prima con Nicole Kidman ha visto Boogie Nights. Il film è appena uscito nelle sale e ne sono rimasti colpiti. Tom Cruise in quel momento è l’attore più potente del mondo e sta girando con nientemeno che Stanley Kubrick, dunque di lì a qualche mese lo sarà ancora di più, ma ora il suo desiderio è essere nel prossimo film di Paul Thomas Anderson il quale, a 27 anni, si ritrova a parlare con Kubrick, che di anni ne ha 70, davanti a una troupe minuscola.
Scusa quanti altri te ne servono?” risponde Kubrick ad Anderson quando questi si dice stupito dell’esiguo numero di persone e sentita questa risposta Anderson chiude amaramente con: “Sono proprio uno stronzo. Spendo troppi soldi...”.
Un anno dopo si sarebbe imbarcato nella produzione più grande, ambiziosa, lunga e piena di star di tutta la sua intera carriera. Uno dei film più influenti e memorabili della storia del cinema americano.

Quando uscirà nelle sale Magnolia, nel 1999, sarà un successo critico mostruoso e un successo economico quasi nullo. Il suo box office mondiale di 48 milioni di dollari fu di poco superiore al budget di 37 milioni. L’inizio della rottura del rapporto tra Anderson e gli studios. Eppure rimane ad oggi uno dei film più monumentali degli anni ‘90, nonché uno di quelli dalla genesi meno convenzionale.
L’ossessione per il 27enne Anderson era di non ripetere Boogie Nights. Quel film corale e ampio era stato un bel successo (considerata la sua fama e il fatto che fosse solo il suo secondo film), proprio per questo voleva fare tutt’altro, non voleva rimanere incastrato in quello che gli chiedevano i produttori, cioè rifare ciò che aveva avuto successo. E dall’altra parte la fama era tale che tutti gli attori volevano lavorare con lui (fino addirittura a sua maestà Tom Cruise!). E lui del resto voleva lavorare con tutti loro.

Inizia così a riunire nella sua testa idee per scene, scenette, sequenze ma soprattutto immagini che lo colpiscono e gli paiono clamorose. Roba che desidera filmare e che gli era balzata in mente già montando Boogie Nights, a cui gradualmente prova a dare un senso. In più ci sono una serie di attori per i quali vuole scrivere un ruolo, in primis la banda di Boogie Nights: John C. Reilly, di fatto una sua scoperta e un caro amico, Julianne Moore, Philip Seymour Hoffman e poi anche William H. Macy, Jennifer Jason Leigh, Luiz Guzman, Alfred Molina...
Gli studios dall’altra parte sono pazzi di lui, gli danno addirittura il final cut e approvano il film prima ancora di leggerlo. Condizioni rarissime. Del resto non c’è molto da leggere, solo un insieme vago di personaggi, idee e immagini. La struttura a mosaico con le varie storie separate sarà quindi la risposta ad una necessità: mettere insieme trame diverse che non hanno molto in comune se non una strana forma di epica del quotidiano.

Alla fine quel che Magnolia trarrà da tutto questo sarà l’unione delle storie da cinema indipendente da cui viene Anderson con l’epica degli studios maggiori, un ibrido unico mai tentato. Un film che racconta di persone che perdono chiavi, che sono in pena per dei complessi, che hanno un padre che non vedono mai o che hanno un tenero amore da rivelare, tutte questioni più o meno ordinarie che scatenano sentimenti repressi e bilanci durissimi e che Anderson riprende facendogli assumere l’epica di un film di guerra o storico.
Come molte altre cose anche il titolo (la prima cosa che aveva partorito), era nato perché gli piaceva, il legame con il film lo si sarebbe poi trovato. Quel che conta è il grande racconto della San Fernando Valley ripresa come se fosse la Normandia nel giorno dello sbarco alleato, con un orologio che ticchetta e diverse storie che convogliano in un crescendo emotivo assieme al meteo.

Le nuvole si accorpano e riuniscono mentre le vite e le vicende di tutti si stringono, la tensione sale e lo snodo emotivo si fa sempre più imminente. Il meteo scandisce la pressione barometrica di queste vite fino a che non esploderanno nell’impensabile. Nell’evento più assurdo eppure catartico possibile. Perché possibile la pioggia di rane lo è, Anderson se n’era assicurato, l’aveva sentito raccontare in un momento della sua vita difficile e duro, uno in cui questa storia delle rane che piovono aveva portato in lui un’incredibile catarsi. Si era documentato ed aveva scoperto che era vero, questo evento visivamente così liberatorio. Addirittura a Philip Baker Hall, che interpreta il conduttore del quiz per bambini, era capitato di assistere ad una di esse in un viaggio in Italia!
Quando la scrisse l’idea dunque era quella di lavare via tutto e non sapeva nemmeno che era un episodio raccontato pure nella Bibbia, anche se quel senso gigantesco della piaga divina sarebbe stato un significato pronto a sposarsi perfettamente con le intenzioni grandiose del film.

In questo modo Paul Thomas Anderson nel 1999 non aveva ancora 30 anni ed era riuscito a ridefinire il grande racconto americano non tramite la sceneggiatura ma tramite la messa in scena e aveva trasportato il disagio sociale e il senso di mancanza di scopo sul corpo degli attori. Tramite mille drammi ordinari Magnolia creava un affresco di un paese pieno di benessere con nessun vero problema che sente dentro un incredibile disagio e questo trova in ogni caso la via di esplodere in mancanza di affetto e distanza dalle persone amate. L’aveva fatto lavorando sugli attori e la loro recitazione, su un cinemascope pompato, su un montaggio e transizioni inesorabili che affiancavano gli eventi in modi inattesi e con ritmi sempre diversi, aveva replicato il lavoro su movimenti di macchina e lunghe riprese di Boogie Nights sempre per avvantaggiare le performance degli attori, e l’aveva fatto infine con la musica, stabilendo un rapporto tra armonie e canzoni, tra orchestrazione e musica non originale che nessuno era mai stato in grado di mettere su schermo, tantomeno in armonia con le immagini!

Paradossalmente il problema del film era proprio Tom Cruise. L’attore aveva espresso interesse, sul set di Eyes Wide Shut, lui e Anderson si erano lasciati proprio con: “Mi piacerebbe far parte del tuo prossimo progetto, qualunque esso sia”. Il che significa che a quel punto Paul Thomas Anderson sentiva di dover scrivere il ruolo più irrinunciabile di sempre. Se ne uscì con questo guru del sesso di cui aveva sentito parlare (un referente reale esiste e gli aveva anche rubato un paio delle frasi più famose), lo scrive così che abbia tutto quel che un attore desideri. C’è la parte teatrale sul palco, c’è la parte di recitazione nella recitazione quando fa l’intervista, c’è la parte in cui nasconde i sentimenti, c’è quella in cui capiamo che si rode dentro, c'è rabbia, esaltazione, commozione e apatia, serve di recitare in maniera grandiosa ma anche in silenzio, serve il lavoro sul corpo e anche uno minimale, immobile, solo di occhi (in cui Cruise metterà una potenza pazzesca stando fermo, una tensione mostruosa senza muovere un muscolo), fino ad un finale a due, con Jason Robards e Philip Seymour Hoffman di sfondo, così difficile che ad oggi rimane l'apice della carriera di Cruise.

Ovviamente Tom Cruise di fronte a tutto ciò non può rinunciare, trova 3 settimane libere tra la fine del set di Kubrick e l’inizio di Mission: Impossible 2 e dà tutto. Lo stesso Anderson ha più volte raccontato che doveva calmarlo e limitarlo per avere una performance che non fosse troppo sopra le righe. Addirittura in un caso gli dovette proibire di usare una frusta sul palco. Questo era il tipo di impegno e contributo che Tom Cruise ci stava mettendo ma quel che gli è stato richiesto è stato ancora maggiore. Per la scena del confronto con il padre infatti Anderson decide che butterà la sceneggiatura come l’ha scritta e farà fare tutto a lui, a Tom Cruise. Un bel rischio. La scena finirà come decideranno Cruise e Robards. Ci sarà catarsi o no? Inizialmente era previsto di sì ma la scena finisce in modo molto più ambiguo.

La verità era che Tom Cruise aveva vissuto un’esperienza simile. Aveva avuto un padre che aveva creato non pochi problemi alla sua famiglia e per questo ne era stato allontanato. I due avevano tagliato i ponti per anni fino a che lui, appena finito di girare Risky Business, era venuto a sapere che stava morendo e si era riavvicinato per gli ultimi giorni.
Ma la cosa pazzesca è che questo segmento così pesante e denso, con una star così micidiale e desiderata è solo una delle bombe ad orologeria di un dramma che funziona come una ricostruzione storica e che in ogni singolo frammento contiene riflessioni di incredibili densità sulla colpa, la solitudine, il peso del passato e soprattutto il rimpianto, il vero trait d’union.

È il raro caso di un film la cui scrittura segue la scelta degli attori e la cui concezione si affida in toto a loro. Anche la famosa sequenza della canzone di Aimee Mann che tutti cantano è frutto di interpretazioni clamorose. A rivederlo oggi è impossibile non notare come questo cast di nomi noti e “non ancora notissimi” sia in una forma pazzesca. Raramente poi li abbiamo visti così a fuoco, così decisivi e così nel pieno controllo del personaggio. Anderson era proprio su questo che aveva lavorato. Come aveva chiesto a Tom Cruise un lavoro particolare, così aveva chiesto ad ognuno di loro, perché se l’intreccio che li lega è stato pensato dopo le loro storie, è un pretesto, un trucco, fumo negli occhi gettato all’inizio con quel prologo sul caso, il vero cuore sono questi piccoli cortometraggi così terribilmente umani e così incredibilmente potenti. Come Carver e poi come Altman (questo film è l'unico caso in cui il paragone tra i due calzi) la piccineria degli eventi si accoppia alla gigantesca importanza di cosa ci dicono.

Non è un melodramma, non è un film drammatico, non è un thriller eppure ha tutto di questi generi, in ogni momento, lungo tre ore di cavalcata.
Dopo Magnolia il cinema indipendente americano ha fatto un salto di qualità nella considerazione mondiale. Il film vinse l’Orso d’Oro alla Berlinale e più in generale impose l’idea che star giganti possono fare film di autori sofisticati senza perdere il loro allure. Ovviamente c’era già stato Tarantino a stabilire questa legge e con risultati al botteghino ben più clamorosi, ma Magnolia aveva un sapore europeo eppure tremendamente americano che Tarantino non ha mai cercato.

Paul Thomas Anderson era così potente che pretese che la promozione non sfruttasse Tom Cruise più degli altri attori per dare risalto anche a loro e montò personalmente il trailer. Un atto di grande idealismo e amicizia che forse gli è costato un’intera carriera. Avesse incassato di più quel film su cui gli studios lo avevano lasciato così libero forse tutto sarebbe stato diverso per lui.

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