Macchine mortali è tutto arrosto e niente fumo

Macchine mortali è talmente strapieno di azione non-stop che si dimentica di prendersi il tempo per parlare dei suoi personaggi

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Macchine mortali arriva su Netflix il 27 gennaio

La tentazione di fare esplodere un po’ di teste aprendo il pezzo con un paragone tra Macchine mortali e Mad Max: Fury Road è fortissima. Entrambi i film vengono dall’altro emisfero (uno dalla Nuova Zelanda, l’altro dall’Australia), hanno un’ambientazione post-apocalittica, prevedono la presenza di molto deserto e di mezzi motorizzati di grandi dimensioni, e soprattutto mettono l’azione e il movimento al primo posto nella lista delle loro priorità cinematografiche, ben prima dei dialoghi o della costruzione dei personaggi. Ma se nel caso del film di George Miller il minimalismo aggiungeva valore al film, che non aveva bisogno di spiegoni per raccontarsi, in quello del film di Christian Rivers diventa un problema. Non abbastanza grosso da giustificare il flop senza senso di Macchine mortali, ma abbastanza da spiegare come mai non sia mai diventato un culto, e non abbia neanche avuto la più classica delle seconde vite in versione casalinga.

Il problema, e poi promettiamo di abbandonare i parallelismi con Mad Max, è che il film di Miller raccontava un lungo inseguimento, e lo faceva sullo sfondo di un mondo definito da pochi, mirati dettagli e non da un ampio canone di riferimento. Macchine mortali, invece, nasce da un libro, e si vede. Erroneamente buttato nel cestone insieme a miliardi di altri young adult usciti post-Harry Potter e Hunger Games, Macchine mortali il romanzo uscì in realtà nel 2001, quando ancora lo steampunk aveva un senso. Al primo libro ne fecero seguito altri tre, tutti ambientati nello stesso universo: al momento di fare un film sul franchise, il materiale a disposizione di Rivers, e ovviamente di Peter Jackson che è il vero fautore dell’opera (qui c’è un dietro le quinte del film: notate quanto tempo è dedicato a lui e quanto a Rivers), era parecchio.

Pipol

E quindi Macchine mortali è stato costruito fin dall’inizio su un conflitto. Da un lato c’era un regista esordiente che aveva passato la carriera a lavorare a storyboard ed effetti speciali e aveva quindi una gran voglia di mettersi in mostra con un film che non stesse mai fermo e ne esaltasse il talento. Dall’altro c’era un corpus letterario di centinaia di pagine, pieno di nomi, avvenimenti, luoghi e soprattutto concetti: Macchine mortali è anche un romanzo politico, per quanto semplicistico, e Philip Reeve, l’autore, spende intere pagine a riflettere sui vantaggi e gli svantaggi di questo o quel sistema di governo, o sulle condizioni di vita delle classi più povere in queste gigantesche città semoventi che si divorano a vicenda per sopravvivere.

Dovendo condensare tutto questo in due ore di girato, Rivers fa l’unica scelta possibile: delega tutte le spiegazioni e gli approfondimenti alle immagini, e usa i dialoghi il meno possibile, e solo quando non c’è proprio altro modo. Macchine mortali è un film che si mette in moto prima ancora della comparsa della title card e da lì non smette mai: i due protagonisti Hester e Tom vengono sballottati senza sosta in giro per l’Europa, inseguiti da gigantesche metropoli su ruote, schiavisti e persino da una sorta di Terminator interpretato da Stephen Lang. Nel frattempo, un classicamente cattivissimo Hugo Weaving rimbalza anche lui da un luogo all’altro, seminando morte e distruzione, in cerca di qualcosa la cui natura scopriremo solo sul finale.

Valentine

Ci sono due, forse tre scene nelle quali Macchine mortali rallenta il ritmo e lascia spazio ai personaggi per respirare e crescere. E sono quelle che, paradossalmente, mettono a nudo il più grande difetto del film: tutto quello che succede è funzione della trama e del plot point successivo, che conta più della volontà dei suoi protagonisti. Certo, pezzo dopo pezzo scopriamo il passato di Tom e quello di Hester, e gesto dopo gesto li vediamo avvicinarsi, superare la reciproca sfiducia e, come da tradizione, innamorarsi. Ma il punto è proprio “come da tradizione”: capiamo quello che sta succedendo perché l’abbiamo visto succedere un milione di altre volte in un milione di film simili, non perché i due siano scritti con un minimo di profondità e tridimensionalità.

Accettiamo che a un certo punto smettano di odiarsi perché lo richiede la trama; accettiamo che Hester passi da “non voglio parlare del mio passato” a “sono nata in una notte buia e tempestosa…” nel giro di due scene perché altrimenti a Tom mancherebbero elementi per comprendere quello che sta per succedere, ma l’evoluzione in sé non è guadagnata, non è stata attentamente coltivata. Succede, come è logico e normale che succeda; ma succede con la freddezza della burocrazia. Anche la stratificazione sociale e le complessità politiche dei romanzi sono sacrificate in nome dell’azione, e sintetizzate con pochi fotogrammi: la folla di Londra che esulta per qualsiasi cosa succeda, compreso un probabile genocidio, e al contrario “i buoni” subito pronti ad allungare una mano verso il nemico perché “noi diamo valore alla vita”.

Macchine mortali Londra

La fortuna di Macchine mortali è che questi problemi balzano all’occhio solo una volta terminata la visione, perché finché il film corre è difficile staccare lo sguardo dallo schermo. Rivers ha imparato dalla scuola-Jackson e si vede, ma è anche pieno di entusiasmo e molto più innamorato del montaggio di quanto lo sia il suo mentore. In particolare le sequenze “di caccia” che coinvolgono il T-800 di Stephen Lang sono degne di nota, e ovviamente il finale, nel quale esplode letteralmente tutto come da tradizione, e lo fa benissimo. È solo quando cala il silenzio e la polvere si deposita a terra che ci si rende conto di avere appena assistito a una lezione su come coniugare action e fantasy, popolata da cartonati dei quali a conti fatti ci frega relativamente poco.

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