L'unica volta che il Festival di Cannes è saltato

Era il 1968 e i registi della Nouvelle Vague si batterono 10 giorni per chiuderlo, riuscendoci, ma tra i registi pure c'era chi era scettico

Critico e giornalista cinematografico


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Il Festival di Cannes, al momento, si fa. Solo che non a maggio (era previsto dal 12 al 23), ma tra la fine di giugno e l’inizio di luglio, sempre che l’emergenza sanitaria sia rientrata. Dovesse andare davvero come si augurano Pierre Lescure, presidente, e Thierry Fremaux, direttore artistico, il festival non salterebbe un’edizione e, per quanto in una necessaria forma ridotta, avrebbe luogo.

In realtà una volta un’edizione l’ha saltata, o meglio non è riuscito a finirla, quella del 1968. Non fu un’epidemia a fermarlo ma i registi della Nouvelle Vague e lo spirito rivoluzionario del maggio francese.

Partita già male con il forfait di Olivia de Havilland, unica superstite del film d’apertura, il restauro di Via Col Vento, il festival già dopo 3 giorni vide la prima incursione e la prima richiesta di chiusura. Le proteste studentesche infuriavano ovunque e i cineasti francesi più giovani chiedevano la chiusura di tutto come segno di adesione ai movimenti. C’erano Truffaut e Godard in prima linea, i più noti e importanti tra i manifestanti. Ma non solo. Louis Malle che quell’anno era in giuria decide pochi giorni dopo di dimettersi e così farà ad un certo punto un’altra giurata, Monica Vitti, seguita da Terence Young, regista dei film di 007.
Quello che stava accadendo era che i film venivano di continuo ritirati uno ad uno. Ritira il suo film Alain Resnais, lo ritira Jan Nemec e poi Milos Forman e Salvatore Samperi, sempre in solidarietà con le richieste dei lavoratori francesi, per protestare contro il sistema borghese che viene celebrato dal cinema e dallo sfarzo del festival.

Passano 10 giorni sui 15 previsti, 10 giorni in cui alcuni film si vedono e altri no, in cui ogni giorni ci sono proteste e manifestazioni per strada, in cui i cineasti della Nouvelle Vague si fanno sentire con forza sempre maggiore e fanno pressione sulla giuria per chiudere tutto. Alla fine la misura sarà colma quando Geraldine Chaplin, protagonista di Peppermint Frappé di Carlos Saura (i due stavano insieme all’epoca), si appende alle tende della sala di proiezione per impedire che si aprano e così bloccare la proiezione.
A quel punto cade ogni remora, un comitato dei cineasti protestanti riesce ad entrare nel palais du cinema e prende la parola dichiarando aperti gli stati generali del cinema francese.

[caption id="attachment_422977" align="aligncenter" width="1000"] Folla sul palco del palais, sulla destra si scorge Jean-Pierre Leaud sopra a François Truffaut ribaltato da Jean-Luc Godard inusualmente senza occhiali[/caption]

È un’occupazione a tutti gli effetti, i registi si barricano dentro interrompendo il festival e dichiarandolo chiuso. Godard come sfottò dirà: “Non usciremo per nessuna ragione. A meno che non portiate dei gelati”.
Il clima è surreale per certi versi, il festival è stato chiuso dai protestanti, ma è anche vero che l’evento sortisce un effetto importante rilanciando molte delle proteste che avvengono a Parigi. Non a caso il governo De Gaulle aveva scatenato la polizia per le strane di Cannes per reprimere le manifestazioni e gli stessi registi ne avevano fatto le spese in più occasioni, venendo picchiati. L’obiettivo è però raggiunto. Il festival che volevano smantellare è stato chiuso per ragioni politiche, il paese era in piena rivolta, c’era l’aria che tutto sarebbe cambiato radicalmente, che la rivoluzione stava per avvenire sul serio e il cinema non doveva rimanerne fuori, anzi: “Tutto deve chiudere” diceva Godard che non intendeva stare a parlare di carrelli e inquadrature mentre il paese era attraversato dal più grande fermento politico di quella generazione.

Non tutti però erano proprio d’accordo. L’aneddotica vuole che Roman Polanski, all’epoca 34enne e giurato, durante gli stati generali del cinema si fosse chinato verso Godard per sussurrargli: “Quello che state facendo mi ricorda la Polonia sotto Stalin” un luogo e un periodo in cui il regista era vissuto, come del resto anche Milos Forman.
Non era per niente favorevole a questa imposizione Polanski e, a differenza del comune di Cannes, dei negozianti e di tutte le altre persone che si erano battute contro questa presa di posizione per interesse personale (sostenendo che i protestanti fossero in realtà stati prezzolati dalla Mostra del cinema di Venezia per minare Cannes), la sua questione era diversa. La sua sensazione era quella di vedere dei bambini che giocavano alla rivoluzione senza aver mai vissuto in un paese dove cose simili siano accadute sul serio. Pochi giorni dopo tutto ciò Polanski se ne andò con la moglie Sharon Tate in Italia con la sua Ferrari.

Il festival di fatto si chiuse lì. Sarebbe ripartito un anno dopo in una forma molto diversa e soprattutto con l’inaugurazione della Quinzaine des Réalisateurs una sezione parallela e autonoma rispetto al festival che dal 1969 si svolge negli stessi giorni del festival principale ma cerca, celebra e valorizza un cinema diverso, opere prime e seconde, autori non allineati, scelte più audaci. È stato il frutto più positivo di quella protesta. Perché poi il festival non è cambiato di tanto ma la Quinzaine ha scoperto i primi film di Werner Herzog, Spike Lee, Takashi Miike, Martin Scorsese, Francis Ford Coppola, Matteo Garrone fino a Damien Chazelle e una schiera quasi sterminata di autori. Il vero laboratorio del nuovo.

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