L’ultimo samurai, tra epicità e smielature

L’ultimo samurai compie vent’anni, e rimane un’opera colossale, della quale si dibattono ancora oggi meriti ed eventuali colpe

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L’ultimo samurai uscì al cinema in Italia il 1 dicembre 2003

L’ultimo samurai è un film tanto, tantissimo, che riesce (quasi sempre, per lo meno) nella difficilissima impresa di non diventare mai troppo. Ultimo (o uno degli, quantomeno) anche in quanto kolossal vecchio stile, in costume, epico, avventuroso, tutta quella roba, insomma, che nei vent’anni successivi è stata assorbita dal cinema di supereroi o dai film con Dwayne Johnson, è anche un film che ha avuto un destino curioso a livello di critica e analisi, fatto di polemiche e contropolemiche, che paradossalmente hanno sempre visto i bianchi schierati dalla parte del no e i giapponesi, cioè quelli che secondo i bianchi si sarebbero dovuti offendere, da quella del sì.

L’accusa classica che viene mossa a L’ultimo samurai, che è poi la stessa che si fa ad altri famosi “ultimi” del cinema tipo L’ultimo dei Mohicani, è quella di essere la solita parabola del white savior, il salvatore bianco che arriva in un luogo esotico e popolato da gente non bianca che ha un problema che non è mai riuscita a risolvere, e per superare il quale ha bisogno proprio del suo aiuto. Nel caso di L’ultimo samurai, poi, che racconta la storia di un ex capitano di cavalleria che ha combattuto nella Guerra civile dalla parte degli Stati del Nord e che finisce in Giappone su richiesta di un suo vecchio superiore, con il quale ha un conto in sospeso perché l’ha obbligato a partecipare a un massacro di nativi, il complesso è amplificato: storicamente il white savior nasce in quanto eroe bianco che aiuta i neri, spesso gli schiavi africani portati negli Stati Uniti, e vestire Tom Cruise di quella specifica divisa è stata vista da più parti come una scelta fin troppo letterale ed esplicita.

L'ultimo samurai è una leggenda, a modo suo

Il punto è che la situazione è più complicata di così, e la parola fine sulla polemica l’ha messa, crediamo noi, Ken Watanabe in persona circa un anno fa: L’ultimo samurai che dà il titolo al film ha spiegato che, sostanzialmente, il progetto fu una buona cosa perché fu la più rapida scorciatoia possibile per uscire dalla trappola degli stereotipi sui giapponesi che regnavano a Hollywood al tempo. “Prima de L’ultimo samurai, c’era questo stereotipo dell’asiatico con gli occhiali, i dentoni e la macchina fotografica. Era una cosa stupida, ma dopo L’ultimo samurai Hollywood ha cercato di essere più realistica quando si tratta di raccontare storie asiatiche”: queste le sue parole, che invece di rispondere direttamente alla polemica sul ruolo di Cruise spostano l’attenzione su quello che secondo lui è l’aspetto più importante del progetto di Edward Zwick.

Il punto è: film come L’ultimo samurai costano un sacco di soldi, e Hollywood è da sempre stata il luogo perfetto per girare certe storie. Perché ci sono i soldi, perché c’è la volontà, perché il kolossal stesso nasce negli Stati Uniti, anche se poi è stato abbracciato anche da altre cinematografie e pure con risultati ottimi. E Hollwyood ha da sempre giocato, in questi film, a ricostruire e raccontare anche culture diverse dalla propria, per quanto quasi sempre abbastanza antiche da sfumare quasi nella leggenda. E L’ultimo samurai è una leggenda, a modo suo: racconta fatti inventati e solo vagamente ispirati a cose successe davvero, crea una figura dai tratti mitologici e le affianca uno sguardo occidentale che fa da filtro e trasforma il racconto anche in una (voluta e cercata) romanticizzazione di un’epoca storica. È un progetto al 100% hollywoodiano, nonostante parli di Giappone, e l’unica differenza con, per esempio, Spartacus è che nessuno a Roma si è lamentato con Kubrick perché deve lasciare in pace certe cose.

Cioè: se il popolo stesso che viene raccontato tramite uno sguardo esterno per quanto attento è felice di questo progetto, facciamo bene a lamentarcene noi bianchi? O nel farlo stiamo comunque spiegando loro come dovrebbero pensare, e quindi di fatto stiamo diventando anche noi dei white savior? Sarebbero semmai altre le critiche da fare a L’ultimo samurai: per esempio il modo in cui racconta la figura dei samurai, in particolare durante il periodo di modernizzazione e occidentalizzazione voluto dall’imperatore Meiji, presentata in modo acritico ed eroico quando la storia ci dice che molti di loro si schierarono contro le riforme perché avevano paura di perdere i privilegi acquisiti. Questi sono, eventualmente, i problemi storici del film di Zwick di cui si potrebbe discutere: non certo la scelta di avere un protagonista bianco in un film che doveva servire come apripista per un tipo di rappresentazione fino a quel momento assente a Hollywood, a maggior ragione se pensate che ci furono davvero dei bianchi che andarono in Giappone a combattere a fianco dell’esercito.

Se però chiedete a noi, le vere critiche da fare al film sono puramente cinematografiche. L’ultimo samurai è un kolossal, certo, ma è anche un melò, diretto da uno che cominciò la sua carriera producendo Shakespeare in Love. È una classica storia di uno straniero in terra straniera, che arriva in Giappone per aiutare l’imperatore ma finisce per andare a vivere insieme ai samurai ribelli e a innamorarsi di loro, della loro filosofia, del loro modo di stare al mondo, della loro indipendenza e anche della sorella del loro capo. Il processo di integrazione è trattato con la giusta delicatezza quando si tratta di far confrontare il capitano Algren con una katana affilata; tutto quello che riguarda però il suo rapporto con Taka (Koyuki) è tremendamente posticcio, e affossa le (presenti, ma non troppo numerose) sequenze romantiche. Sembra una storia d’amore innestata a forza su uno scheletro che già si reggeva perfettamente senza, nella convinzione che un film del genere non possa prescindere dalle scene di corteggiamento e da un romantico primo bacio.

Un film troppo innamorato di sé stesso?

Oltre a questo, c’è il problema – minore, certo, ma che qui e là si sente – che L’ultimo samurai è fin troppo innamorato di sé stesso e anche nelle sequenze più d’azione tende a pavoneggiarsi perdendo un po’ d’impatto: anche la battaglia più brutale può sembrare un delicato balletto con il giusto uso di slow motion e inquadrature a effetto. E così succede che le sequenze, diciamo così, di addestramento del nostro eroe risultino paradossalmente più efficaci di quelle dove deve davvero mulinare la katana, perché sono quelle in cui Algren si confronta non solo con la pratica dell’uso della spada, ma anche con la teoria della filosofia samurai – e ha quindi senso che eleganza e brutalità convivano. Quando le cose diventano serie, il film avrebbe forse beneficiato di uno sbilanciamento maggiore in favore della seconda: così com’è è tanta estetica e poco impatto.

Poco male, comunque: suddetta estetica è quella dell’accuratissimo bigino di cinema giapponese, confezionato ad arte per un pubblico che aveva appena imparato a conoscere quel mondo grazie a film come La tigre e il dragone, o che addirittura non ci si era avvicinato per una qualche forma di sfiducia verso il cinema non americano. L’ultimo samurai fu decisivo per abbattere anche queste barriere: se oggi, per dirla con Ken Watanabe, gli asiatici a Hollywood non hanno più i dentoni e la macchina fotografica, il merito è anche di questo film.

Tutte le informazioni sul film nella nostra scheda!

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