L’ultimo dei Mohicani, compie trent’anni l’unico Oscar di Michael Mann

L’ultimo dei Mohicani uscì nel 1992, e a distanza di trent’anni è ancora l’unico film di Michael Mann ad aver vinto un Oscar

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“Quello che mi attraeva del progetto era la possibilità di raccontare una vivida e passionale storia d’amore in una zona di guerra”. Così Michael Mann ricordava dieci anni fa L’ultimo dei Mohicani, e con il senno di poi chissà che proprio in quella frase non si trovi la risposta a uno dei più grandi misteri della storia del cinema. Che è questo: com’è possibile che Michael Mann abbia vinto un solo Oscar in carriera, e peraltro per Miglior sonoro, e che l’abbia vinto con quello che apparentemente è un film molto lontano dal suo stile e da tutto ciò che l’ha reso famoso?

L’ultimo dei Mohicani compie oggi trent’anni e ancora Michael Mann è fermo a quel singolo Oscar – né Heat, né Insider, né Collateral né lo straordinario Miami Vice hanno portato a casa neanche mezza statuetta, e al momento la speranza è che il suo imminente Ferrari possa finalmente interrompere la maledizione (d’altra parte è un biopic su un personaggio noto ed esotico: le possibilità ci sono tutte). Com’è possibile che uno dei più grandi registi contemporanei sia stato così a lungo snobbato dall’Academy, e che il suo nome sia comparso solo associato a un drammone storico/strappalacrime, e peraltro in una categoria purtroppo considerata minore?

Il sospetto che viene immediatamente è che L’ultimo dei Mohicani sia stato premiato (e prima ancora notato) perché è il più “da Oscar” dei film di Mann, insieme forse ad Ali. Ha tutti gli ingredienti necessari per convincere la giuria. È un period piece, un filmone in costume che parla del passato dell’America, uno degli argomenti preferiti del cinema americano. È tratto da un noto romanzo, dal quale si stacca a sufficienza da evitarsi accuse di razzismo e colonialismo, e anche da un noto film (la cui sceneggiatura è secondo Mann un’opera d’arte) del 1936, aggiornato con i mezzi e i soldi di sessant’anni dopo. Ha un protagonista talmente amato dall’Academy che da anni c’è un piano segreto per cambiare le fattezze della statuetta dell’Oscar per farla assomigliare a Daniel Day-Lewis (potrebbe non essere vero).

E soprattutto ha una storia d’amore, classica, romantica e strappalacrime, che è il cuore e il motore di tutto il film. L’ultimo dei Mohicani è uno scontro tra tre diverse culture: quella coloniale e formale britannica, il cui motto è “il mondo deve diventare l’Inghilterra”, quella nativa, costretta a reagire all’invasione e anche a capire da che parte schierarsi in quella che di fatto è una guerra tra bianchi che dovrebbe consumarsi altrove, e infine quella di Hawkeye – non quello della Marvel ma Nathaniel Poe, il protagonista che è un vero colono, arrivato in America per conquistarla, rimasto orfano da piccolissimo, cresciuto da un nativo che gli ha mostrato il modo in cui è possibile convivere senza rivolgersi alle armi e alla violenza.

E una tensione così forte e così multidirezionale è terreno fertile per una romance divorante e passionale. Mentre stanno inseguendo un gruppo di Uroni, alleati con i francesi, Hawkeye e la sua famiglia adottiva (padre e fratello) incrociano un gruppo di soldati britannici che stanno scortando le due figlie del generale Munro al forte più vicino, e al padre, non sapendo che il forte stesso è sotto assedio da parte delle truppe nemiche. Se non ci fosse la passione che scatta immediatamente tra Hawkeye e Cora, la maggiore delle due figlie, il film potrebbe concludersi lì: i nativi non hanno motivo di invischiarsi nelle vicende dei bianchi, e il gruppo di Hawkeye potrebbe tirare dritto e lasciare le ragazze al loro destino.

Michael Mann ha raccontato più volte che L’ultimo dei Mohicani del 1936 è uno dei primi film che ha visto in vita sua e uno di quelli che più l’hanno influenzato – la sua versione arriva perché è lui stesso che decide che è arrivato il momento di girare il film che aveva sempre inconsciamente voluto girare. Le storie d’amore non sono mai stata la sua specialità, ma quella del 1936 tra Randolph Scott e Heather Angel deve averlo colpito particolarmente, perché la sua versione di L’ultimo dei Mohicani funziona soprattutto perché funziona la storia d’amore tra Hawkeye e Cora.

Funziona grazie agli interpreti, funziona perché è plausibile – Cora dimostra immediatamente di non essere solo una ricca viziata cittadina con una bella faccia ma una donna forte e in grado di tenere testa anche a un rude frontaliero – e funziona perché Mann la usa come fil rouge per non farci perdere l’orientamento in quello che è, di fatto, un intricatissimo film di guerra, talmente denso di avvenimenti che quando Hawkeye e le due ragazze arrivano finalmente al forte la sensazione è di avere appena assistito a un intero film, e non solo ai suoi primi quaranta minuti. L’ultimo dei Mohicani è un film epico e avventuroso, pieno di colpi di scena, tradimenti, doppi giochi e frequenti combattimenti violentissimi; ma su questo complicato mosaico spicca sempre come una stella polare la storia tra Hakweye e Cora, con tutte le sue vittime collaterali.

Sembra una banalità dirlo, ma questo impianto ambizioso regge perché a tirare le fila di tutto c’è Michael Mann, uno per il quale l’attenzione al dettaglio non esiste perché i dettagli non esistono: è tutto importante, che si tratti di creare un costume, far forgiare un’arma appositamente a un fabbro nativo o ricostruire un intero forte in cima agli Appalachi (in realtà di Fort Henry furono ricostruiti “solo” tre lati su quattro). L’ultimo dei Mohicani è, come altre grandi epiche del cinema americano, un film che non invecchierà mai perché è senza tempo – o meglio, appartiene a un tempo passato e ormai cristallizzato anche nel nostro immaginario.

Chiudiamo con una nota sempre a proposito di dettagli: dieci anni fa, in occasione del ventesimo anniversario del film, è uscita una director’s cut che si trova oggi in Blu-ray, e che dimostra come Michael Mann veda le cose in maniera diversa dai comuni mortali. Le due versioni non sono così radicalmente differenti, c’è un grande lavoro sulle minuzie e pochissime modifiche evidenti, eppure per Mann “ci sono tantissime differenze, e la versione home video è quella che con il senno di poi avrei voluto far uscire al cinema”.

Se volete potete cimentarvi con il gioco delle differenze: poi fateci sapere…

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