L'Ufficiale e la Spia, di Roman Polanski | Bad Movie

Il Bad Movie della settimana è L'Ufficiale e la Spia di Roman Polanski, Gran Premio della Giuria all'ultima Mostra del Cinema di Venezia tra mille polemiche

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Spoiler Alert
La nostra analisi de L'Ufficiale e la Spia, di Roman Polanski, al cinema dal 21 novembre.

Affari Dreyfus

Tanti. Muti, sonori, in bianco e nero, a colori, in tv e al cinema. Manca solo l'animazione. George Méliès, José Ferrer, Ken Russell, Roman Polanski. Ognuno di loro ha fatto un film sul caso Dreyfus, il capitano dell'esercito francese accusato erroneamente di essere una spia dei tedeschi a fine '800 in Francia. Ogni regista dal suo punto di vista particolare. La produzione di Méliès a puntate, vicinissima ai fatti storici perché del 1899, fu vietata in Francia perché Dreyfus ancora non era stato riabilitato. Sarebbe accaduto solo nel 1906 per cui ecco il rappresentante del primo cinema di effetti speciali e fantasia (Méliès) fare il Francesco Rosi ante litteram proponendo un tipo di offerta audiovisiva ben ancorata alla realtà e dalla parte del soldato accusato contro quelli che oggi potremmo chiamare i poteri forti. Perché Méliès è pro-Dreyfus? L'attore che lo interpreta è a favore di camera mentre Méliès stesso decide di assumere il ruolo dell'avvocato del prigioniero, quel Fernand Labori che per Polanski è un vibrante Melvil Poupaud. Nel 1937 William Dieterle fa vincere un Oscar a chi interpreta Dreyfus (Joseph Schildkraut) nel suo Emilio Zola, biopic sullo scrittore autore del famoso pamphlet J'Accuse, con la faccia nel film di Paul Muni (lui, però, non vincerà l'Oscar per Miglior Attore Protagonista). Ferrer arriva nel 1958. È  anche attore nei panni di Dreyfus, enfatizzando la condizione del prigioniero e facendo un  dramma democratico e libertario finanziato dalla MgM dopo aver vinto l'Oscar come Miglior Attore Protagonista per Cyrano De Bergerac. Russell è il primo che sposta l'attenzione sul colonnello Picquart assumendo per il ruolo quel Richard Dreyfuss quasi omonimo del capitano accusato erroneamente perché imparentato alla lontana. Qui si tratta di rivivere quell'importante fatto storico dal punto di vista di un patriota francese che cambia idea e lotta a favore della riabilitazione del militare incarcerato all'Isola del Diavolo. Dreyfuss, da sempre faccia liberal della New Hollywood dai tempi del suo occhialuto biologo marino ne Lo Squalo di Spielberg, ha quasi un ruolo da "salvatore yankee" a livello percettivo perché è un nordamericano che fa il francese in un film su un fatto storico europeo in una produzione tv (in Italia uscì in sala) angloamericana. E Polanski?

Kolossal

Ventidue milioni di euro di budget, quattro mesi di riprese e cinque di produzione con anche noi nel progetto via Casanova di Luca Barbareschi. Il regista ha solo 86 anni. Ci ritroviamo come ai tempi dell'ultimo Mad Max a chiederci: "Ma come ha fatto fisicamente?". E dire che George Miller ha 12 anni meno di Roman Polanski. Alla Mostra del Cinema di Venezia del 2019 è arrivato in Concorso come pietra dello scandalo (qui riassumemmo la vicenda in occasione della conferenza stampa finale) ed è uscito con il secondo premio più importante della manifestazione ovvero il Leone D'Argento Gran Premio Della Giuria. Con Joker di Todd Phillips stava a un altro livello cinematografico rispetto ai rivali del Concorso. Perché? Perché con un entusiasmo narrativo che ha dell'incomprensibile Polanski ha diretto un affresco storico spettacolare dai connotati di kolossal su una faccenda che più marcia non si può. Mentre si sarebbe inventato a dicembre il cinema, nel gennaio 1895 in Francia si perseguitavano gli ebrei come nel caso del capitano Dreyfus, degradato perché accusato di essere una spia. Ecco un uomo osservarlo sprezzante da lontano col binocolo. Chi è costui? Si chiama Jacques Picquart (Jean Dujardin) ed è un colonnello che diventerà maggiore dell'esercito poi venire promosso a capo dei servizi segreti. Viviamo tutto il film dal suo punto di vista tanto che anche le immagini della prigionia di Dreyfus all'Isola del Diavolo ci sembrano frutto dei pensieri corrosi dai sensi di colpa di Picquart, il quale è bello, bravo, vincente, pure con l'amante altolocata. Arriverà a dirigere dei servizi segreti collocati in palazzi fatiscenti i cui corrimani delle scale melmosi ti conducono in stanze popolate da loschi figuri le cui finestre risultano impossibili da aprire. Picquart comincerà a ricostruire il fattaccio (qualcuno dell'élite militare ha passato informazioni sensibili ai tedeschi; tra i cinque sospettati si scelse Dreyfus) con lettere da ricomporre come puzzle, dagherrotipi sbiaditi, confronti calligrafici, dossier polverosi. E se quel soldatino stempiato di Dreyfus, il quale non brilla mai nel film per simpatia (idea geniale di Polanski), fosse stato accusato solo perché ebreo?

La pellicola dura 132 minuti. Per la prima ora Polanski, servito da un'eccellente sceneggiatura di Robert Harris in adattamento del suo romanzo, ci manipola al punto che pare non esserci più alcuna speranza. Poi Picquart viene invitato ad entrare in un'altra stanza borghese di quella Parigi nazistoide per accorgersi, e noi con lui, che esiste un controcampo che possa fare da contrappeso a quella macchina tritacarne antisemita. Ecco rompersi la solitudine. Di chi? Di noi spettatori e di lui Picquart. In un'altra stanza della società facciamo la conoscenza di editori coraggiosi, magistrati e un artista tutto d'un pezzo di nome Emile Zola, il quale quando verrà insultato dalla propaganda riceverà l'appellativo di: “Zola l'italiano!”. Il film di Polanski va avanti a blocchi di campo-controcampo. Prima il binomio FranciaNazista/FranciaNonNazista poi LottaInteriore/LottaEsteriore. Picquart sospetta, rianalizza il suo pregiudizio attraverso dei flashback in cui Dreyfus era un suo allievo in una prestigiosa scuola militare, mette in discussione sé stesso e poi affronta il mondo a singolar tenzone. All'indagine circa l'innocenza di Dreyfus seguiranno scazzottate per strada, duelli con sciabole, pistolettate alle spalle, urla in tribunale e rogo dell'edizione del quotidiano L'Aurore in cui Zola scrive il suo celeberrimo "J'Accuse" in cui si schiera a favore dell'accusato inventando di fatto la figura dell'artista militante che usa la sua notorietà per cause sociali a lui care. Dopo aver visto e pensato al peggio, il film improvvisamente esalta l'altra faccia di una grande nazione che prima avevamo stentato a riconoscere.

Conclusioni

Intenso, magnetico, popolare e sofisticato insieme. Altra idea essenziale del film: non è importante il rapporto umano (Picquart e Dreyfus hanno solo due scambi pure piuttosto acidi) quando dobbiamo decidere cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Conta solo il nostro senso del dovere e la capacità di ritrovare quella legge morale assoluta presente in Natura (Critica della ragion pura di Kant) e quindi la ricerca della verità. Uno stuolo di attori magnifici (Louis Garrel, Emmanuelle Seigner, Damien Bonnard, Mathieu Amalric, Vincent Grass, Denis Podalydès) capitanati dal migliore Dujardin di sempre rendono questo kolossal polanskiano degno del suo ultimo successone sul fronte cinema in costume di grande impianto produttivo ovvero Il Pianista (2002).

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