Looper, compie dieci anni una specie di film in via d’estinzione

Looper è un sempre più raro caso di una storia di successo, con un grande cast. grandi ambizioni e soprattutto originale

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Fateci cominciare questo pezzo su Looper, che compie dieci anni proprio in questi giorni, con una banalità da vecchietto che osserva i lavori in corso: si fanno sempre meno film come Looper, che un decennio dopo la sua nascita è classificabile come specie in via di estinzione. Un film scritto e diretto da una persona con un’idea forte e soprattutto originale, ispirato sì a grandi classici della letteratura e del cinema del passato più o meno recente, informato stilisticamente da altrettanti film arcinoti e arcicitati, ma comunque originale, senza un franchise alle spalle a cui appoggiarsi, “obbligato” ad avere successo solo grazie alle sue forze. Non c’è modo migliore di parlarne che citando queste parole del suo autore, Rian Johnson, che nel 2012 dichiarò che “la verità è che si continuano a fare buoni film, ma si fanno sempre meno film interessanti […] sembra sempre di più che i film vengano visti come proprietà intellettuali a tutto tondo, esattamente come faresti per il franchise di un fast food”.

È impossibile trattenere un sorriso rileggendo queste parole oggi che Rian Johnson non è più un autore indipendente con una voce personale e che si muove sempre ai confini con l’underground ma “il regista di Gli ultimi Jedi”, ma anche di Knives Out e del suo imminente sequel. In tutta onestà va detto che in quella stessa intervista Johnson ammette che “sono tentato, in particolare in quanto filmmaker all’inizio della sua carriera. L’idea di lavorare su qualcosa di così grosso, avere tutti questi giocattoli con cui giocare, raggiungere un pubblico vasto – è grandiosa”.

Ma è anche vero che, nel 2012, Johnson era ancora uno di quelli che tesseva le lodi dell’autorialità più pura e incontaminata, quella che ti porta ad avere un’idea, farla crescere, coltivarla sotto forma di sceneggiatura e infine trasformarla in un film (da qualche parte in questo percorso c’è anche la questione dei soldi, ovviamente). E Looper è ancora oggi una sorta di manifesto, da questo punto di vista, come lo erano d’altra parte i suoi due film precedenti, Brick e The Brothers Bloom. È, come già detto e ribadito, un’idea tutta sua. Ispirata senza dubbio a Philip Dick, al primo Tarantino, a Terminator e in generale a qualsiasi film sui viaggi nel tempo che sia mai stato fatto; ma declinata in un modo tutto sommato originale, e anche, volendo, discutibile – non nell’accezione negativa del termine, ma nel senso di “che stimola discussioni”.

Dei tre citati sopra per nome e cognome, è Philip Dick l’influenza principale di Looper. Lo è su almeno due livelli diversi. Da un lato ci sono i viaggi nel tempo, che Dick usò parecchie volte nel corso della sua carriera (anche in alcune delle sue opere più impenetrabili) e che qui sono raccontati “alla Dick”, e/o se preferite alla cyberpunk (inteso come genere): viaggiare nel tempo è illegale, lo si fa non sedendosi su una lussuosissima sedia hi tech ma infilandosi in una sorta di lavatrice scricchiolante… manca tutta la patina della fantascienza più classica o di quella più moderna, sostituita dallo sporco e dalla ruggine dei vari Blade Runner o Soylent Green.

Non a caso a fare uso del viaggio nel tempo sono solo i criminali, mentre lo Stato, o il suo equivalente trent’anni nel futuro, preferisce ignorarne l’esistenza. Looper è già nei suoi presupposti un film sull’underground, sul sottobosco criminale, sulle cose che succedono nel futuro mentre gli onesti cittadini non stanno guardando. Ed è anche, è il secondo livello dickiano di lettura, un film sulla telepatia, presente in una piccola percentuale della popolazione mondiale e provocata da una mutazione genetica; Dick ha passato metà della sua carriera a esplorare il tema e le interazioni tra mente e corpo, e Looper ne riprende molti spunti.

In tutta onestà, non lo fa benissimo. Looper è un thriller futuribile e stilosissimo, che alterna scene d’azione girate e coreografate con gusto a lunghi dialoghi quasi western che sembrano usciti da un film del succitato Tarantino; e si prende anche la libertà di ribaltare la trama di Terminator e farla propria, trasformando John Connor in un futuro supercriminale che va fermato prima che faccia danni e approfittando di questo aggancio umano per affiancare alla fantascienza più pura una bella dose di character drama. È però anche un thriller al quale sarebbero forse bastati i viaggi nel tempo per funzionare.

L’introduzione della telecinesi suona forzata, buttata lì quasi casualmente da Joe (il protagonista, e a proposito: il trucco usato per far assomigliare Joseph Gordon-Levitt a Bruce Willis è ancora pessimo dieci anni dopo) in apertura di film durante uno dei suoi numerosi e irrinunciabili monologhi da noir, e poi recuperata mezz’ora dopo per permettere alla storia di Joe e Sara (Emily Blunt) e a quella di Joe e Joe di incrociarsi. È vero che senza la telecinesi e il piccolo Cid il film sarebbe stato solo una lunga (e autoriferita) caccia all’uomo; ma è anche vero che la fantascienza funziona se l’aspetto “fanta” è usato con moderazione.

A Looper non interessa spiegare il meccanismo dei suoi viaggi nel tempo, né la loro logica e gli infiniti paradossi che generano. In una delle scene migliori del film, Bruce Willis (che in quel momento indossa anche i panni di Rian Johnson) spiega al sé stesso giovane che “è inutile provare a ragionare sui viaggi nel tempo: finiremmo per discuterne per delle ore, facendo schemini con le cannucce e fondendoci solo il cervello”. È una delle più belle scorciatoie per evitarsi il rischio di chiudersi in un paradossale vicolo cieco che siano mai state usate; ma ci dice anche che “il viaggio nel tempo” in Looper non afferisce tanto alla parte “-scienza” di “fantascienza”, quanto a quella “fanta”.

Aggiungere un secondo aspetto tutto sommato inspiegabile (a meno che non vogliate accettare l’idea che una singola mutazione genetica possa portare alla nascita di un’intera generazione di supereroi), e farli interagire nel modo più paradossale possibile, è un grosso rischio dal punto di vista narrativo, ed è forse il peccato originale di Looper – l’arroganza di chi è convinto di poter reggere un film sui viaggi nel tempo E sulla telecinesi di stampo kinghiano senza scadere nel ridicolo.

Il punto è che Looper ci riesce: lo si può criticare se visto da fuori e con distacco, ma nel corso delle sue due ore di durata è un film che fa di tutto per impedirti di pensare e di ragionare troppo. Ha un ritmo travolgente anche quando rallenta come un western, è un film per il quale si può legittimamente usare l’aggettivo “stiloso”, è anche un film fatto da uno che sa di avere per le mani Bruce Willis e che soprattutto sa come usarlo, e soprattutto è un film costantemente sorprendente, impossibile da prevedere o anticipare.

Una specie in via d’estinzione, appunto, soprattutto nella fantascienza.

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