Longlegs: l’idea migliore del film sta in ciò che non si vede

Longlegs lavora sul fuori campo, sui bordi dell'inquadratura, per celare l'orrore e, quindi, per valorizzarlo.

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Un tempo nei migliori horror si nascondeva il mostro, ora si cela la star. La campagna promozionale di Longlegs è andata contro ogni logica di mercato: hai un solo grande volto di richiamo nel cast, Nicolas Cage, e non lo mostri. A vendere Longlegs sono state le sue immagini dell’orrore: gli omicidi presenti nei teaser, le voci registrate e le inquadrature più suggestive. Senza trama, senza personaggi, non si sapeva un granché Longlegs prima di vederlo

È proprio questo “non visto” e “non saputo” che ha permesso al film di emergere tra la miriade di horror d’autore indipendenti. Addirittura il titolo del film fu svelato dopo settimane dal rilascio delle prime immagini. Merito di Neon e del suo team (come vi scrivevamo qui), ma anche di Oz Perkins e del suo modo di fare cinema. Su una trama brutale, oppone una messa in scena a volte fin troppo raffinata e ragionata. Le sue soluzioni visive si prestano però benissimo per essere estrapolate e messe in locandina, nei trailer, nei siti del marketing virale. 

Quella di non fare vedere Nicolas Cage se non tramite piccoli dettagli non è solo un’ottima trovata promozionale, ma è anche una parte integrante della narrazione. È una scelta quasi obbligata dei thriller non far vedere in faccia la persona da catturare. Qui però il guardare dall’altra parte, la visione parziale, lo vive lo spettatore, ma anche la detective e le vittime stesse. Per risolvere il caso bisogna girare gli occhi nella direzione giusta: il fuori scena. 

Longlegs e le inquadrature irrazionali

Inizialmente, con la prima interazione tra Longlegs e una potenziale vittima, il taglio dell’inquadratura censura parte del volto. Per tutta la caccia all’uomo si procederà così: avendo solo piccoli pezzi, uno sguardo fugace, sulla verità. Oz Perkins resta vittima della sua idea: man mano che procede il film perde il suo realismo, discende nell’horror puro mostrando di più e abbracciando un soprannaturale all’inizio solo suggerito. In quei momenti, che dovrebbero essere il culmine della tensione, ci si ritrova persi. Sappiamo tutto, ma abbiamo perso aderenza alla storia. 

Questo avviene perché il vero punto di forza di Longlegs non è la sua trama, a tratti un po’ sempliciotta, ma la sua messa in scena. La detective Lee Harker (Maika Monroe) possiede un intuito fuori dal comune. Riesce a trovare la pista giusta solamente seguendo le sue emozioni. Un sesto senso che la aiuta a risolvere i casi e che il film, nei suoi momenti migliori, vuole ricreare anche nello spettatore. 

Il subliminale come cifra stilistica

Fondamentalmente l’inizio di Longlegs è una classica storia di detective. Il terzo atto è un horror puro (quindi con l’elemento paranormale che assume una posizione preponderante). Nella parte centrale, la migliore, le sensazioni di Lee Harker fanno da collegamento tra i due piani: quello di un’indagine razionale e una ricerca irrazionale, non condotta con scientificità. 

Oz Perkins lavora sulle suggestioni (le foto degli omicidi, le voci, tutto ciò che resta fuori dall’inquadratura) e sul subliminale. Grazie a un montaggio piuttosto rapido, non nel ritmo interno, ma nei salti veloci da uno step all’altro dell’indagine, sembra che i detective siano “teleguidati”. Che si muovano quasi in uno stato di ipnosi. 

L’influenza esterna che in maniera silenziosa si insinua e determina le scelte in maniera inconsapevole è uno dei temi del film ed è l’unico vero risultato che vuole raggiungere il regista. Perkins orienta tutta la sua messa in scena per decostruire la solita “razionalità” dei film di detective. In questa indagine si segue le sensazioni, il “secondo me”. Così Longlegs riesce a essere suggestivo, perché la bussola sono proprio le suggestioni stesse. Per fare questo doveva nascondere Nicolas Cage ma, al contempo, metterlo in bella vista. Sin dalla prima sequenza. 

Longlegs non raggiunge tutto quello che vorrebbe, ma va bene così

Meno raffinato di quello che vorrebbe far credere, Longlegs insegue però il suo obiettivo primario e lo centra. Vorrebbe farlo trovando nuovi stili di racconto, invece ricade nella “maniera”. L’uso espressionista degli ambienti e dei suoni è già visto in molti altri horror d’autore (diventando quasi un cliché: il film di paura patinato). Persino il conflitto interno della sua protagonista è un classico fare i conti con il passato, con la follia e l’ossessione, con il doppio metaforico, che appartiene a tanto altro cinema. Nicolas Cage è bravo, ma spesso in un overacting che a tratti risulta risibile. Il colpo di scena è imprevedibile, ma anche deliziosamente assurdo.

Uno degli spot più interessanti di Longlegs mostrava Maika Monroe nella sua prima scena girata con Cage nei costumi di scena. Si dice che quello che stiamo ascoltando è il suo battito cardiaco è registrato prima e durante il ciak. Come emerge, l’attrice stessa aveva paura di vedere Longlegs in scena. Lei lo vede, noi ancora no.

La sottrazione è vincente, lo sanno tutti i registi horror, ma solo pochi riescono a inseguirla veramente. Perché è molto più semplice far vedere che nascondere e lavorare con poco. Perkins lo fa su più livelli: visivamente, ma anche nell’interpretazione degli indizi, delle lettere scritte in un alfabeto inventato e non tutte decifrate. Il gioco finisce non appena il film sceglie di mostrare. Nel culmine della pretesa di originalità, ricade nell’ordinario.

Però, per 2/3 dell’esperienza, Oz Perkins è riuscito a fare ciò che dovrebbe fare ogni regista: giocare con le aspettative dello spettatore, sovvertirle. Rendere chi guarda il centro della trama, ancora più dei personaggi stessi. Proporre una storia che si spiega attraverso la logica, ma che si interpreta tramite le sensazioni che comunica. Un bravo regista horror deve essere un manipolatore dell’inconscio, uno che spinge a decisioni irrazionali e genera immagini interne, che nascono nella fantasia, non sullo schermo. Deve essere, cioè, un po’ Longlegs.

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