Light & Magic cambia prospettiva: è grazie alla tecnologia che si realizza l’ispirazione

L'Industrial Light & Magic viene esaltata nel documentario a lei dedicato, ma arriva a ribaltare la storica priorità alla creatività astratta

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Non molti hanno il coraggio di dire quello che invece afferma Light & Magic, il documentario disponibile su Disney Plus dedicato all'omonima azienda di effetti speciali. Il protagonista è l’incredibile team di artisti che ha dato vita a Star Wars e ad altre magie (Indiana Jones, E.T. l’extra-terrestre, Ritorno al futuro per citarne solo qualcuno).

La genesi dell'Industrial Light & Magic

George Lucas aveva delle idee ben precise sulla sua saga. Voleva la meraviglia di 2001: Odissea nello spazio ma con un ritmo e un mondo fantastico alla Flash Gordon. Lui il progetto l’aveva chiaro in testa e (meno) nella sceneggiatura. Non a aveva però la minima idea di come concretizzarlo.

Allora si mette alla ricerca della squadra. Chiama Douglas Trumbull, che rifiuta, ma gli segnala John Dykstra il quale prende sotto la sua ala un gruppo di giovani universitari. Arrivano Joe Johnston, Phil Tippett, Dennis Muren e fondano quella che pian piano prenderà la forma della grande Industrial Light & Magic.

Lucas delegò a loro la realizzazione delle sequenze di Guerre Stellari con effetti speciali. Un assegno in bianco su gran parte del film. La battaglia nello spazio, nelle crepe della Morte Nera, i matte painting, la straordinaria apertura di Una nuova speranza erano tutte in mano a quel team di geni inesperti. Nemmeno loro infatti avevano idea di come realizzare quegli effetti all’avanguardia.

Allora sperimentarono, provarono, sbagliarono e ritentarono ancora. Inventarono macchinari, nuove tecniche di ripresa, trovarono soluzioni che cambiarono l'industria come il motion control, e costruirono modellini di ogni forma e dimensione. Il tutto senza girare un secondo di film in mesi di lavorazione e senza che Lucas ne sapesse niente. 

Intellettuali, creativi e macchinari

Certo, Light & Magic è un’operazione autocelebrativa e non filologica. Però in questo modo, amando tantissimo il suo soggetto, la serie riesce ad affermare quella che nella Hollywood dei creativi intellettuali normalmente è vista come una bestemmia.

La tecnologia può dirigere un film quanto un regista. Lo può influenzare allo stesso modo e in certi casi è più importante di tutto il resto. Perché una visione non è nulla senza avere la possibilità di renderla tangibile anche ad altri. Lucas, senza quel fortunato dream team di effettisti, non avrebbe fatto Star Wars ma una bella copia di un qualsiasi film di fantascienza per ragazzi dell’epoca. Non avrebbe mai cambiato la storia del cinema, avrebbe creato uno sfocato emule della sua idea.

Per George Lucas questo non è mai stato un problema. Lo dice candidamente anche nelle interviste, quando ammette di faticare persino ad usare il cellulare e di avere però una cieca fiducia nelle possibilità dei computer che in qualche modo farà. Lui ha l’idea. Ed è unica, geniale, irripetibile. Ma serve la tecnologia, servono i tecnici, gli “operai” del cinema per realizzarla. 

Il cinema è meraviglia e innovazione

L’arte sfida la tecnologia e la tecnologia ispira l’arte” dice John Lasseter riguardo alla sua Pixar. L’Industrial Light and Magic è ancora più diretta: senza tecnologia non esiste l’arte (per lo meno quella cinematografica). In fondo anche la prima cinepresa fu un ritrovato tecnico avanguardistico. La proiezione non è magia, è scienza e ingegno. 

Quando Star Wars venne mostrato per la prima volta senza effetti speciali fu ritenuto incomprensibile. E il pubblico era di gente esperta: gli amici di Lucas che di cinema ne sapevano parecchio (ad esempio un certo Spielberg). Più che una mancanza, l’assenza di effetti visivi era il furto dell’anima stessa del film. 

Ad un certo punto della sua storia, quando Guerre Stellari non era più l’unica fonte di sostentamento, l'Industrial Light & Magic si riempì di lavoro e si espanse. Una squadra di persone enorme e ambita da Hollywood che si trovava però sotto un’incredibile pressione.

Non bastava replicare i successi, occorreva superarli di film in film. Sempre più distanti tra di loro, i fondatori originali iniziarono a lamentare una sorta di industrializzazione del processo. Nelle interviste rilasciate nel documentario lo dicono piuttosto esplicitamente: dover concludere i lavori nel minor tempo possibile, senza avere il tempo di giocare, divertirsi, e tentare fino ad arrivare alla forma finale li ha privati dell’estro creativo.

Proprio quello che succederebbe a un regista o a uno sceneggiatore. Creare macchinari, trovare soluzioni ai problemi posti dal regista, inventare artifici nuovi, sono un lavoro che richiede molte conoscenze tecniche, una grande manualità e tanto pensiero divergente, dicono. Anche se alla fine tutto si riduce nel creare oggetti o esplosioni, o sfondi, che servono alla storia. I loro sono i nomi in fondo ai titoli di coda, quelli che in pochi leggono. Per riuscire a fare quello che fanno serve però ispirazione proprio come serve a uno sceneggiatore nel creare un dialogo.

Gli artisti intervistati parlano come se fossero i registi dei film. Lo fanno con lo stesso entusiasmo e la stessa conoscenza di ogni singolo dettaglio e sono in grado di giustificare ogni decisione presa. 

È questo il fascino delle loro testimonianze raccolte nella serie. Perché ribaltano la prospettiva. Amiamo pensare che il genio e la creatività siano assoluti, senza vincoli, impossibili da fermare. Invece servono delle persone che alle idee costruiscano un vestito, diano benzina, e le aiutino a realizzarsi. Il che porta automaticamente alla domanda che da almeno 100 anni attanaglia chi si occupa di audiovisivo: di chi è un film?

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