Le tante cose di cui parla Parthenope, l'opera più personale di Paolo Sorrentino

Una guida ai tanti temi e alle tante suggestioni che rendono Parthenope un film tanto denso quanto affascinante, in dialogo con lo spettatore e inaccessibile

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Spoiler Alert

Tutto in Parthenope è simbolico. Quindi tutto in Parthenope è reale. Perché la mano che l’ha girata è quella di un sognatore, il suo regista, che attraversa Napoli identificandosi in una donna dalla "grande bellezza”. Un corpo che attira su di sé gli sguardi, che fa innamorare tutti: i passanti, i parenti, un vescovo e persino i suoi fratelli. Non una sirena che incanta, eppure è come se lo fosse. Nata dal mare lo rappresenta come una dea dei miti antichi. Parthenope è Sorrentino che sposta l’identificazione da Fabietto Schisa di È stata la mano di Dio a lei: il simbolo di Napoli e nuovo alter ego del regista. 

Questa nuova fatica appartiene a quella parte della filmografia meno favorevole al pubblico. Un cinema personale fatto per piacere solo al suo autore. Se poi chi guarda trova la stessa fascinazione, è un fortunato allineamento non cercato. Piacere e spiegarsi da sé non è il proposito di Parthenope. Un film che vuole dire tantissimo, anche attraverso le sue massime inserite in quasi tutti i dialoghi, ma che richiede allo spettatore lo sforzo di trovare chiavi di lettura per lasciarsi coinvolgere.

Senza la pretesa di spiegare tutto, perché il cinema va vissuto come un mistero le cui soluzioni sono spesso soggettive, ripercorriamo il film attraverso alcune delle suggestioni tematiche che aiutano a orientarsi in questa opera senza regole, talvolta pacchiana ed esagerata, ma anche libera, proprio come la città di cui racconta.

Un viaggio da fermo

Fabietto Schisa doveva partire, alla fine di È stata la mano di Dio. Un allontanamento da Napoli che corrispondeva alla fine di una prima parte della sua formazione: quella emotiva. Fabietto non diventa adulto a fine film, ma diventa se stesso. La sua vittoria è la scoperta della sua passione: il cinema.

Parthenope è Sorrentino se fosse rimasto a Napoli. Una città limitata nell’estensione, ma i cui vicoli esprimono un mondo estremamente variegato. Le inquadrature si dividono in tre tipi: quelle che raccontano una bellezza oggettiva, naturale. Il golfo, le comparse che passeggiano, riprese tutte negli anni di massimo splendore. Ci sono poi le brutture che vengono da ciò che, invece dovrebbe essere bello. Ovvero il pacchiano che si trova nella ricchezza ostentata, nelle cerimonie religiose, nelle celebrazioni delle icone locali. Infine c’è la bellezza inaspettata: quella che risiede nel brutto. Le case povere, le prostitute, possono risplendere di notte come un cielo stellato. 
Napoli è come la tana del bianconiglio. Non la si esplora nella sua larghezza, ma andando al centro. Sempre più in profondità, verso il suo cuore.

Il tempo di Parthenope

Il film parla di bellezza. Il tempo è la materia prima del cinema. Entrambi sono in sinergia e in lotta. Il tempo permette di arrivare allo splendore dell’estate, ma poi fa sfiorire nell’inverno. Come si rapporta con la caducità delle cose la donna perfetta (con cui è impossibile identificarsi) dotata di fascino, salute, intelligenza e benessere economico?

Sta qui la dimensione simbolica di Parthenope (film e personaggio), dove tutto va letto secondo la grammatica della finzione cinematografica. Per questo i personaggi non si stupiscono più di tanto se, entrando in una stanza, si trovano di fronte a un essere deforme enorme, un mostro che potrebbe essere stato narrato da Omero. Perché in questa dimensione del fantastico, tutto può succedere.

Il tempo scorre come quello della realtà, facendo invecchiare la sua protagonista e mettendola di fronte al ricordo. Scorre anche come quello della fantasia: riempiendosi di elementi fuori da questa dimensione, diventando quasi eterno. 

Seduzione, sacro e profano

Parthenope seduce, è vorace di sguardi. Fa innamorare tutti. Le sfumature dell’amore sono molte. C’è quello erotico, c’è l’amicizia e la parentela, ma anche la fascinazione intellettuale del professore universitario. L’innamoramento assurdo e grottesco del vescovo appartiene alla dimensione simbolica del sacro. La ricerca del divino viene ripresa come la tensione verso una bellezza superiore a tutto. La ritualità delle religioni è, per Sorrentino, proprio questa tensione verso l’incredibile, ciò che toglie il fiato e fa inginocchiare consci della propria debolezza. L’amore e il rito si incontrano sul finale nel calcio. La cerimonia laica, la festa piena di luci e musica che adatta il teatro antico in una forma moderna di rappresentazione. 

Alla fine Parthenope la vediamo come una regina, al culmine della sua opera di turbamento. Non se ne accorgono le persone che entrano in contatto con lei, ma tutte ne escono profondamente cambiate. Solo Parthenope, che nasce già perfetta, finisce come ha iniziato. Per questo lei non è la protagonista. Il protagonista è il suo sguardo.

Antropologia

La giovane potrebbe scegliere ogni disciplina, grazie alla sua spiccata intelligenza. Sceglie l’antropologia. Non sa bene cosa sia, dice, ma in fondo la esercita sin dall’inizio. L’antropologia è vedere, le verrà spiegato. In fondo Parthenope fa questo per tutto il film: attira gli sguardi e, di rimbalzo, osserva. Come uno schermo cinematografico.

Parthenope parla di questo: di un viaggio che si fa da fermi e che talvolta diventa un rito condiviso. Di uno sguardo che può sedurre, ma anche fare impazzire. Di un’illusione ma anche di una ricerca di verità attraverso la finzione. Parla del tempo della giovinezza, fermato in un’estate perfetta, e della curiosità attraverso cui gli occhi possono conoscere i segreti delle persone. Tutto questo si somma in un’unica cosa: il cinema stesso, secondo Paolo Sorrentino. 

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