Le ragazze del Coyote Ugly, tra aspirazioni e cruda realtà

Le ragazze del Coyote Ugly vorrebbe essere un film sull’empowerment femminile, ma subisce il peso di una regia troppo maschile

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Le ragazze del Coyote Ugly è su Star di Disney+

Se eravate già su questo pianeta nel 2000 probabilmente vi ricordate quanto fosse diverso il clima culturale dell’epoca rispetto a oggi, almeno se vogliamo prendere i film di Hollywood come termometro della situazione. Era un periodo di rinato ottimismo dopo i deprimentissimi anni Novanta (a loro volta una qualche forma di risposta a certi anni Ottanta, e così via), durante il quale si moltiplicarono i film che raccontavano parabole di autoaffermazione e di uscita da certi schemi. Tra questi ce n’è uno che arrivò sulla scena proprio al volgere del decennio, e che se le cose fossero andate un po’ diversamente verrebbe ricordato come un’opera pionieristica capace di portare l’empowerment femminile al centro dell’attenzione in un contesto sfacciatamente pop e disimpegnato – una sorta di coronamento di una parabola cominciata con le Spice Girls, per capirci. Stiamo parlando di Le ragazze del Coyote Ugly, che è arrivato su Star di Disney+ e che, nel 2021, si rivela essere un’esperienza straniante.

Le ragazze del Coyote Ugly è una storia vera; non nei dettagli più minuti, e ovviamente visto che si tratta di un film la vicenda di riferimento è stata adattata in modo da avere un arco narrativo coerente. Ma l’ispirazione è molto reale: parte tutto da questo articolo pubblicato su GQ nel marzo 1997, e firmato da nientemeno che Elizabeth Gilbert – cioè quella che qualche anno dopo diventerà una scrittrice di fama mondiale con il romanzo Mangia, prega, ama. Nel pezzo, Gilbert raccontava la sua esperienza come barista al Coyote Ugly Saloon di New York, un posto che “non ti piacerà se non ti piacciono i bar dove il jukebox passa solo canzoni di Hank Williams oppure su Hank Williams”; un classico "buco", che puntava tutto il suo appeal sull’idea della proprietaria Liliana Lovell di avere una squadra di bariste particolarmente aggressive, nei modi e nell’abbigliamento.

Coyote

Il pezzo su GQ dovette passare per otto persone diverse prima di diventare la sceneggiatura di un film: tra queste si contano anche Kevin Smith, non accreditato, e Carrie Fisher, come raccontato in questa oral history di un film definito come “il più 2000 di sempre”. Il risultato finale finì nelle mani di un esordiente, l’inglese David McNally, uno che dopo Le ragazze del Coyote Ugly diresse Kangaroo Jack prima di piombare nell’oblio (dal 2003 ha diretto qualche episodio di un paio di serie TV e un film per la TV intitolato The Apostles), e gran parte del peso del film venne appoggiato sulle spalle della quasi esordiente Piper Perabo, una seconda scelta della produzione dopo il rifiuto di Jessica Simpson.

Il film che ne è venuto fuori è una dimostrazione perfetta di come anche le migliori intenzioni del mondo possano venire sabotate da una realizzazione non all’altezza.

La storia di Le ragazze del Coyote Ugly è una classicissima parabola di affermazione che ha come protagonista un’ingenua ragazza di campagna che si trasferisce in città in cerca di successo nel mondo dello spettacolo e si deve scontrare con la cruda realtà della New York dei primi anni Duemila. Che era molto meno cruda di quanto verrebbe raccontata oggi, a dirla tutta: è vero che, come da copione, Violet riceve una serie di rifiuti prima di vedersi offerta un’occasione poco ortodossa ma in ultima analisi funzionale per dare una svolta alla sua permanenza in città. Ma è anche vero che tutto questo viene trattato con la leggerezza e la piacevole superficialità di un’epoca nella quale scelte di vita di questo genere erano incoraggiate e alimentate dal mito della metropoli come orizzonte ultimo delle opportunità, e della gioventù come passaporto per un futuro radioso.

Gruppo

Violet incontra discografici scortesi che le fanno notare che se non conosce nessuno nell’ambiente non ha speranza di far ascoltare la sua musica a chi conta; ma sono macchiette, figure comiche che servono solo ad alimentare la sua forza interiore, e a fornirle gli strumenti giusti per affrontare la prova più grande. Che si materializza nella figura della già citata Liliana Lovell, magnificamente interpretata da Maria Bello: è la proprietaria del Coyote Ugly – a proposito: oggi quel saloon è diventato un franchise con 13 locali negli Stati Uniti, due in Inghilterra, due in Germania, uno in Kirghizistan… – e la prima persona a New York a vedere qualcosa in Violet, e a offrirle una possibilità. Cioè quella di svestirsi e usare tutta la sua sensualità per convincere un branco di avventori a spendere soldi in birre e superalcolici.

È qui che casca il proverbiale asino.

Da un lato è molto evidente che Le ragazze del Coyote Ugly è stato scritto da una donna basandosi sulle esperienze di vita di una donna che lavorava in un ambiente femminile. Le bariste del saloon sono belle e lo sanno, e sfruttano questa caratteristica sapendo che, nelle parole della stessa Lil, “il maschio medio va in giro con un bambino di due anni nei pantaloni”. In teoria è un ribaltamento della classica prospettiva della donna oggettificata dall’uomo: il Coyote Ugly è un saloon al femminile nel quale sono le donne a decidere di svestirsi ed eccitare i maschi perché sanno che è il modo migliore per far sganciare loro del denaro. Si potrebbe obiettare che si tratta comunque di una scelta fatta per soddisfare il pubblico maschile e non la propria voglia di autoaffermazione, ma non c’è dubbio che, almeno sulla carta, l’idea del film sia quella di parlare di donne che usano il proprio corpo come vogliono loro, non come viene loro imposto, e anche di quanto i maschi siano, in mancanza di un termine migliore, tutti un po’ scemi.

Le ragazze del Coyote Ugly acqua

Dall’altro lato, Le ragazze del Coyote Ugly è diretto da un maschio e si vede: tutte le scelte estetiche e di messa in scena sono fatte – anche coerentemente, va detto – per la soddisfazione di un pubblico maschile (o femminile o di altri generi ma che apprezza il corpo femminile; ma nel 2000 discorsi del genere nel mainstream cinematografico non venivano neanche affrontati di striscio), e non aiuta che i personaggi maschili, in particolare il love interest di Violet interpretato da Adam Garcia, siano, quelli sì, assolutamente inappropriati a guardarli con gli occhi di oggi (stiamo parlando di un tizio che appena conosce la fanciulla decide di stalkerarla insistentemente per mezza città). La sensazione di disagio è costante: l’intento del film è chiaro, ma lo è altrettanto il fatto che le ragazze protagoniste siano trattate dalla regia come pezzi di carne e gestite ai confini del soft porno.

Il vero vantaggio di Le ragazze del Coyote Ugly è che procede a un ritmo talmente sostenuto che tutte queste considerazioni durano qualche secondo prima di venire spazzate via da una nuova ondata di luci, colori e clamoroso abbigliamento da primi anni Duemila, il genere di vestiario che ti fa esclamare “come ci veniva in mente di conciarci così?!” (e vale anche per i maschi, sia chiaro). È un’orgia pop che rallenta solo quando Piper Perabo si mette a cantare, e poi ricomincia a macinare, gioiosa come uno spring break e ancora più spensierata. È un bene? È un male? Di sicuro è strano, e sembra che da allora di anni ne siano passati cinquanta, non venti.

Le ragazze del Coyote Ugly è disponibile da qualche giorno su STAR, la sezione all'interno di Disney+.

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