Le iene: come si poteva immaginare un film senza soldi 30 anni fa

La storia di Le iene è quella di una sceneggiatura tenuta per sè, di un amico che si inventa produttore e di Harvey Keitel che cambia tutto

Critico e giornalista cinematografico


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Forse è l’incubo di ogni regista che alla prima proiezione pubblica del suo primo film questo sia proiettato male. È capitato a Tarantino che nella sala del Sundance Film Festival in cui veniva mostrato per la prima volta Le iene camminava su e giù dietro l’ultima fila sbraitando come un matto perché non era stata messa la giusta lente anamorfica e quindi il suo film era proiettato come se si fosse zoommato in avanti, con le parti più a destra e più a sinistra di ogni inquadratura fuori dal quadro e quindi invisibili. Considerato come funziona Le iene, le molte persone spesso in scena che parlano tra di loro e i duelli finali, in pratica non si capiva niente. Lo stesso il film uscì dal quel festival come il più discusso amato e importante.

L’esordio peggiore possibile per un film che sarebbe poi diventato uno dei più noti film indipendenti fino a quel momento. Del resto Tarantino che già aveva scritto un paio di sceneggiature di buon successo ma dirette da altri (Una vita al massimo, Assassini nati) lo aveva capito che questo era il film che doveva dirigere lui, altrimenti non sarebbe mai diventato davvero un regista. Monte Hellman era stato il primo ad interessarsene quando Lawrence Bender, attore, amico ma in quel caso anche produttore improvvisato, portava la sceneggiatura in giro in cerca di soldi. Lo voleva dirigere oltre che finanziare ma anche a lui fu detto di no. Stavolta Tarantino se la teneva stretta.

Le iene l’aveva scritta all’epoca del lavoro nel videonoleggio, pensata originariamente per essere girata in 16mm bianco e nero con un budget di 30.000 dollari. Niente. Attori tutti amici e location al minimo. È stato Lawrence Bender, girando e lavorando di capitali per mettere su una società di produzione più seria, ad ampliare lo spettro e cominciare ad immaginare qualcosa di diverso. Così tanto che stavano per finire nelle maglie di un finanziatore canadese, disposto a mettere una cifra importante nel film a patto che la sua fidanzata interpretasse mr. Blonde, ovvero il personaggio sociopatico che poi è andato a Michael Madsen. Ancora un niente di fatto.

La vera svolta sarà il momento in cui sempre Lawrence Bender (che distribuiva la sceneggiatura a chiunque incontrasse) la affida al suo insegnante di recitazione la cui moglie lo passa a Harvey Keitel. La telefonata, per come la riporta Full Fat Videos risulta in un messaggio sulla segreteria telefonica di Tarantino: “Salve, sono Harvey Keitel. Ho letto Le iene e vorrei parlartene”. Occorre ricordare che quella versione dello script era stata scritta in tre settimane e mezzo, una furia, e conteneva qualcosa che non si era mai visto o sentito prima: i dialoghi di Tarantino puri. Non erano attutiti perché altri registi potessero girarli, erano gli scambi di battute per i quali sarebbe diventato famoso nella loro purezza, all’interno di una sceneggiatura di una semplicità disarmante. Nella prima parte si pianifica una rapina e si teme ci sia una talpa che non sappiamo chi sia. Nella seconda solo noi scopriamo chi sia questo infiltrato e vediamo il dopo-rapina, con molte soluzioni geniali per farci capire (senza averlo visto) come è andata, e un rapporto di amicizia tradito che arriva ai massimi livelli, ad acuti da cinema di Hong Kong. Un gioiello di pochi mezzi e molte idee in cui la violenza esplode quando non è attesa, quando tutto sembra un film parola, e porta sangue e morte a livelli espressionisti.

Dentro c’è di tutto, da Rapina a mano armata a City on Fire di Ringo Lam (forse le ispirazioni più forti) ma anche scene da Django (la tortura), suggestioni da Americani (la rapina descritta) o i nomi con i colori di Il colpo della metropolitana. È il classico misto di film visti rimessi insieme con un tono, uno spirito e una capacità di scrittura originalissimi che caratterizzerà tutta la prima fase della carriera di Tarantino. In più qui si affaccia un altro elemento che sarà cruciale per lui, il fatto che i suoi personaggi recitano sempre. Recitano nel senso che devono mentire, devono fingersi quel che non sono o che proprio parlano e discutono come si reciti. Ma se la godono. Mr. Orange è un poliziotto infiltrato, quindi recita, ma molto del film spiega come si racconti una buona storia inventata, come si nascondano certi elementi e come ci si finga quel che non si è con efficacia. Del resto il film stesso fino a quel punto ci ha detto che c’era una talpa ma ce l’ha anche nascosta. A nessuno ad una prima visione sembra che Tim Roth sia meno criminale degli altri.

L’ingresso di Keitel come attore e come produttore sarà la svolta che cambia tutto. Non solo è un nome che sblocca dei finanziamenti (consentendo a Bender di mettere insieme 1,5 milioni di dollari e trovando a Tarantino un posto al Sundance Lab per sviluppare il film dove il suo tutor sarà Terry Gilliam) ma lui in prima persona si attiverà, e pagherà perché si facciano sessioni di casting a New York, che frutteranno la gran parte degli attori che questo film scopriva e che poi avrebbero avuto una gran carriera. Tutti recitano sempre benissimo nei film di Tarantino, una tradizione che parte qui. Tutti hanno dei dialoghi memorabili in bocca (tradizione che inizia con la parte sulle mance affidata a Steve Buscemi). Tutti infine prendono parte ad un ensemble che, come spiega bene lo stallo alla messicana finale, intreccia vite e destini esaltando il gruppo al pari dei singoli. Non importa chi muoia o chi spari a chi, importa semmai altro, più dell’intreccio contano i personaggi (come nel cinema europeo): quali ostacoli personali, morali e mentali ognuno lotti per abbattere dentro di sé, i contrasti da grande opera e la coolness con i quali vengono risolti.

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