Le due torri 20 anni fa aggiornava la parola "epico" sul dizionario di una nuova generazione di cinefili

Il signore degli anelli: Le due torri ha portato nella contemporaneità del cinema la sensazione che tutti cercano e pochi trovano: l'epicità

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Il signore degli anelli: Le due torri compie oggi 20 anni: usciva infatti nei cinema italiani il 16 gennaio 2003. Ripassiamo quella specifica sensazione che ha lasciato il suo finale.

Non c’è dubbio che una scena romantica sia una che suscita la passione, fa provare la tenerezza e il calore di un amore che nasce sullo schermo. Una scena di tensione è una che taglia il fiato, che assorbe totalmente i nervi. Quella horror fa ribrezzo o spavento, quella divertente fa ridere. E allora cosa rende una scena epica?

Se lo chiedessimo alla più giovane generazione di cinefili, quella che si è formata con i film degli ultimi 15 anni, le risposte sarebbero variegate e discutibili. Per loro epica è la posa del protagonista in scena al massimo della sua potenza. È la quantità di attori in gioco. Uno scontro tra dieci persone è meno epico di uno tra mille, anche se quei dieci si contendono il destino dell’universo. È una musica che sale, è il fragore del subwoofer. Ma soprattutto è l’oscurità, la violenza, la rabbia che c’è nel combattimento. È lo spettacolo di poteri che deflagra come una scarica elettrica portata al massimo. Epico è un momento di rivalsa in cui il film non si contiene più, rompe gli argini, spara tutto al massimo. Così gli è stato insegnato.

Per chi è cresciuto cinematograficamente con Il Signore degli Anelli, la generazione degli anni ’80-’90, la parola epico l’ha definita Le due torri. E le definizioni scritte qui sopra, secondo quando dimostrato cinematograficamente da Peter Jackson vent’anni fa, sono tutte sbagliate.

Le due torri è un film in cui tutto è enorme 

Le due torri si stagliano altissime nel cielo. Gli Ent marciano solenni facendo tremare il terreno. Gandalf combatte, in apertura del film, contro il potentissimo Balrog in una caduta infinita, quasi infernale. Gli eserciti si estendono a perdita d’occhio nel fosso di Helm. 

Ma questo gigantismo non è il cuore de Le due torri. Lo è invece il destino di due Hobbit, due esseri piccolissimi, che devono fare il doppio dei passi e soffrono quindi il doppio, sulle cui spalle (assurdo e illogico apparentemente) i grandi della Terra di Mezzo hanno fatto pesare il destino del mondo. In questo contrasto c’è tutto Tolkien: lo scrittore che più nutre una fiducia totale nelle sorprese che possono riservare le persone più impensabili. 

Enorme era anche la responsabilità che portava con sé il film: essere un punto intermedio senza inizio e fine. Cambiare il tono, dalla solare La Compagnia dell’Anello alla gravitas de Il Ritorno del Re. Peter Jackson fa così un film grigio plumbeo. È qui che si inizia a tenere d’occhio i corpi. L’ansia del cibo che sta finendo, la fatica del cammino, le ferite sono dei catalizzatori di tensione che lavorano sotto pelle.

Il viaggio dei piccoli

Le due torri deve essere stato difficilissimo per Peter Jackson da tenere insieme. Separati i gruppi di personaggi principali si è trovato tra le mani un film spezzato. Ci sono tante mosse sulla scacchiera da seguire contemporaneamente. Questo nel linguaggio cinematografico si traduce in un continuo sforzo per rinnovare l’attenzione a ogni sequenza, per poi perderla saltando da un punto all’altro. Aveva bisogno di un punto collettore, uno strumento per riannodare il tutto. Fu geniale l'idea di usare la battaglia del fosso di Helm a questo scopo.

Nel frattempo, mentre si organizzava il materiale nel tempo a disposizione, la tecnologia lavorava ancora sulla scala dello spettacolo. Il sublime e l’umile convivono in scena. C’è Gollum, che fu sconvolgente: una presenza tangibile di un essere che non può esistere nella realtà. Il salto di qualità rispetto agli altri personaggi in computer grafica fu siderale. Dava fastidio vederlo. Creava una dissonanza, come se ci fosse qualcosa di sbagliato in un attore (pardon, un modello in computer grafica sovrapposto a un attore) così deforme.

Credere a Gollum significò però per tutti capirlo.

In parallelo, dopo aver curato i piccoli, il team VFX ha dovuto espandere tutto su proporzioni immense. Un esercito moltiplicato all’infinito. Un mare di Uruk-hai che assedia delle robuste (ma mai rassicuranti) mura. 

Gli oggetti diventano fondamentali per la tensione. C’è una differenza tra combattere con le armi logore o nuove dalla fucina, non c’è gloria nel viaggiare con un pezzo di pane e i piedi nudi nel fango. Così Le due torri ha consciamente tolto tutto quello che oggi definiremmo epico. Non vediamo mai Sam e Frodo in una posizione gloriosa. Persino Gandalf il bianco che appare splendente agli amici, si ridimensiona subito in una risata amichevole. Una sottrazione saggia, solo per rilanciarla al momento giusto.

Le due torri: la guerra sporca e temuta

Alzi la mano chi ha notato eroici guerrieri tra le fila che difendono il fosso di Helm. Il paesaggio è da sturm und drang. C’è la tempesta e l’impeto. A differenza della sensibilità moderna per queste situazioni però nessuno dei protagonisti vorrebbe stare lì in quel momento. Anche i più valorosi sono spaventati. È coraggioso chi resta, perché sa che morirà. Ci si può identificare in (quasi) tutti i guerrieri nel loro ultimo disperato tentativo di difesa.

Tutto il contrario dei superuomini o degli alieni che combattono con forza sovrumana per difendere la propria terra. Qui, nel Signore degli Anelli e in particolare ne Le due torri, i personaggi sono grandi(osi) perché le loro forze vengono a mancare. Eppure restano. Eppure vanno avanti.

40 minuti di battaglia hanno bisogno di un sollievo umoristico, così Gimli e Legolas si destreggiano in acrobazie e battute che rendono sopportabile il dramma. È l’unica sbavatura in un dipinto bellico dove ci sono solo assalitori e vittime. La vanteria del gesto eroico, dell’impresa memorabile dei valorosi, appartiene ad altri tipi di canzoni. Non a un poema scritto dopo gli orrori delle due guerre. Esattamente l'opposto di come l'istinto chiederebbe di costruire una scena epica.

Ma che cosa significa veramente?

Il signore degli anelli è un racconto epico nel senso più classico, cioè narrazioni sull’eroismo spalmate su un arco di tempo lungo e con una prospettiva ampia sul mondo creato. Ma la sensazione di epicità è ben altra cosa. È quel brivido che corre lungo la schiena, quel trascinamento nell'azione, che Peter Jackson ha riportato al cinema con Le due torri. Era già esistito, ma qui, per la prima volta, è stato (ri)creato con una nuova sensibilità che ha segnato una generazione. Ovvero l'epicità dei piccoli che fanno cose grandi, degli sconfitti che non si muovono pur schiacciati dalla marea.

Il ritorno del Re è pieno di momenti simili e ancora più forti. Nulla raggiunge il senso di sacrificio dello sguardo di Aragorn nell’ultima carica disperata. Allo stesso modo i Rohirrim portano alle lacrime per la solennità con cui vanno verso morte certa.

Sta qui il senso dell’epico di Peter Jackson, opposto a quello che prevale nel cinema di oggi. Ne Le due torri è rappresentato da un sole che sorge a est. È sbagliato leggerlo come un simbolo di ritrovata potenza. È segno invece che un altro giorno è arrivato, che la morte è stata scampata ancora per una notte. Theoden si butta fuori dal fosso di Helm seguito dagli Eorlingas. Sono minuscoli in mezzo ai nemici. È piccolo anche Gandalf, questa volta sì, in una posa statuaria. Da solo non potrà cambiare nulla. Così ecco che infine all’orizzonte appare vicino a lui Éomer con i Rohirrim. 

È il primo, grande, momento epico del cinema contemporaneo. Quello che ha scritto la definizione più vera e bella di quella sensazione indescrivibile che abbiamo provato. Non nasce dall’impresa eroica di chi ha gli strumenti per trionfare. È epica la fermezza dei deboli che non fuggono di fronte ai giganti. Anche nel momento di massima gloria continuano a essere fragili e mortali. Hanno però una differenza: hanno un compagno come loro al loro fianco o, se stanno andando verso dei cancelli oscuri, un amico.

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