La vita nascosta è un pessimo biglietto da visita per Terrence Malick

La vita nascosta di Terrence Malick arriva su Disney +: ecco perché non è un buon biglietto da visita per un autore capace di ben altro

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La vita nascosta - Hidden Life di Terrence Malick sarà disponibile dal 29 aprile su Disney+.

Magari conoscete poco o nulla il cinema di Terrence Malick e, scorrendo il catalogo di Disney+, volete avvicinarvi partendo dalla sua ultima fatica, quel La vita nascosta - Hidden Life presentato in concorso a Cannes 2019 e poi passato fugacemente nelle sale italiane nell’estate 2020. Magari potreste essere attirati dalla storia, ispirata alla vita vera di Franz Jägerstätter, contadino austriaco che, durante la seconda guerra mondiale, si rifiutò di combattere per i nazisti e di giurare fedeltà a Hitler. O magari avete apprezzato The Tree Of Life e La sottile linea rossa (per citare i titoli più famosi del regista) e non vedete l'ora di recuperare un film prima invisibile. Ecco, se è questo il vostro caso (ma anche solo se il film vi venga proposto in "riproduzione automatica"), siamo qui per avvisarvi: La vita nascosta è un pessimo biglietto da visita per un autore che ha raggiunto vette altissime negli ultimi anni e che qui, percorrendo (in parte) un'altra strada, si è un po' perso. Per spiegarvi perché, dobbiamo fare un passo indietro.

Un Malick sorprendentemente prolifico

Parabola strana, quella di Terrence Malick. Autore sfuggente, poco amante della visibilità, che ha realizzato prima sole 4 opere in oltre trent’anni (tenendo conto dei 20 che passano da I giorni del cielo, 1978, a La sottile linea rossa, 1998), e poi, nell'ultimo decennio, ne ha portate compimento ben sei, a partire dall’acclamato The Tree of Life, Palma D’Oro a Cannes. Dopo quest’exploit, però, l’attenzione e l’apprezzamento di critica e pubblico ricevuti si fanno inversamente proporzionali alla sua prolificità. Le opere successive sono infatti etichettate frettolosamente come tentativi superflui di replicare la poetica del precedente titolo, quanto ne sono un (più o meno riuscito) consolidamento. Parliamo di Voyage Of Time, documentario sulle origini della Terra, in Concorso a Venezia 2016. E poi soprattutto di tre opere di finzione, To The Wonder, Knight Of Cups e Song to Song, passate in quasi totale silenzio a vari festival.

I tre titoli sono accomunati da stile e tematiche: la trama procede frammentaria, senza un vero e proprio sviluppo narrativo, così come la messa in scena, che fa di un montaggio ellittico e del ricorso a un'instabile macchina a mano i suoi tratti principali. Strumenti per rappresentare l’interiorità dei personaggi, colti in crisi esistenziali e tormentati rapporti di coppia. Tra di loro regna l’incomunicabilità: in To the Wonder per esempio i protagonisti esprimono i loro pensieri in monologhi interiori in lingue diverse: francese, inglese, spagnolo e italiano. Esempi di un cinema che tratta argomenti profondi, lungi però dall’essere intellettuale, quanto molto più vicino ad un'idea di poesia: non tesi da portare avanti ma intense e significative pennellate sulle emozioni umane, vero cuore del racconto, da evocare sullo schermo.

Fondamentale è poi il discorso sulla spiritualità, la ricerca di una risposta nella fede che è però è un cammino complicato, in un cui solo nel finale si raggiunge un sofferto punto d’arrivo. Ci sono sovente figure di monaci e preti che più che farsi portatori di certezze e frasi assolutorie sono anch’essi in preda a forti dubbi, come il padre Quintana (Javier Bardem) in To The Wonder.

Le tre opere però, e qua ci avviciniamo a La vita nascosta, prevedono anche un progressivo incanalamento delle tematiche esistenzialistiche in una dimensione più "concreta". Se in To the Wonder il contesto sociale era volutamente lasciato sullo sfondo, in Knight of Cups fa capolino Hollywood: il protagonista (interpretato da Christian Bale) è uno sceneggiatore che si muove nel mondo delle feste e dei deserti studi cinematografici losangelini. In Song To Song l’universo musicale diventa poi il protagonista: BV e Faye (Ryan Gosling e Rooney Mara) sono due musicisti che si muovono nella scena musicale di Austin, celebre per i suoi festival, e, nella speranza di farsi un nome, si scontrano con l’avido produttore interpretato da Michael Fassbender. I tormenti di Faye trovano dunque radice nei suoi dubbi sulla carriera intrapresa, nella sua difficoltà di farsi strada nello spietato mondo musicale.

Ponendosi allora come "film basato sui fatti realmente accaduti" e inserendosi in una cornice storica precisa (l’occupazione nazista), La vita nascosta avrebbe potuto rappresentare una successiva tappa del coerente percorso del regista, proponendo un approccio nuovo all’interno di consuete tematiche. Il problema però è come lo fa.

La vita nascosta: il Malick più lineare…ma anche il meno affascinante

La sostanziale novità de La vita nascosta è data dalla narrazione lineare: la prima parte serve a imbastire il contesto della storia, il background del protagonista (l’idillio campestre con moglie e figlie, presto spezzato dall’arrivo della guerra) e il suo rifiuto a combattere; la seconda ci narra la sua prigionia; l’ultima i processi, i tentativi di fargli cambiare, fino all’esecuzione finale. La dimensione concreta e storica è ben evidenziata dai cartelli che aprono e chiudono la narrazione: il primo ci introduce al racconto ("Durante la Seconda Guerra Mondiale tutti i contadini austriaci erano chiamati alle armi e  dovevamo giurare fedeltà a Hitler") il secondo tira le fila ricordando i tanti che, come Franz, non sono stati tramandati dalla Storia ufficiale ma hanno giocato un ruolo importante muovendosi sottotraccia. Un intento didattico chiarissimo, rimarcato ancora di più dagli estratti dei filmati d’epoca inseriti in apertura e chiusura.

Tutto questo non sarebbe per forza di cose un male, se non, come invece accade, fosse incredibilmente (per un regista come Malick) assai poco complesso e affascinante. Il cuore del film è il martirio del protagonista, il suo fare una scelta ostacolata da tutti, uomini di Chiesa compresi, che aderiscono indefessamente a Hitler. Ad ogni obiezione, il protagonista neanche risponde: la sua fede e i suoi principi sono giusti e non necessitano di replica. Il regista non pone ombre sulla sua figura, dando per scontato e assoluto il suo punto di vista. È la moglie invece, rimasta sola ad occuparsi dei figli e della terra, a domandarsi il perché di tutto il dolore, a mettere in dubbio la scelta del marito. Momenti toccanti, ma che poi vengono risolti rapidamente: "Franz…ci ricongiungeremo tra le montagne" sono le parole con cui si conclude il film, segnale di una ritrovata conciliazione tra i due, sotto il segno di tormenti pronti a trovare pace nell’aldilà.  La loro sofferenza è l'unico leitmotiv della narrazione, cuore di tutte le sue scene: per un film lungo quasi 3 ore...forse è un po' troppo.  E soprattutto sembra che qui il regista sia più interessato a inculcarci una morale, piuttosto che a raccontare la parabola dei personaggi, che appaiono meri veicoli di quest'ultima.

Anche la questione della lingua è presente, ma assai macchinosa: tutti i personaggi (contadini compresi!) parlano in inglese, mentre solo qualche breve passaggio è in tedesco, ma senza sottotitoli, in particolare il processo alla corte marziale nazista. I giudici spuntano sentenze a gran voce che cadono nel vuoto, in una connotazione di netta mostruosità. Stesso discorso per la messa in scena: la macchina da presa si muove docilmente, il montaggio a volte propone tagli improvvisi, ma è tutto molto controllato. Se l’atmosfera degli altri film richiamava il disorientamento dei protagonisti, qui invece richiama la stabilità, l’incrollabilità di Franz. Ma senza trasmettere la forza necessaria per appassionarci davvero alla sua vicenda, per farci colpire da una storia le cui coordinate erano chiare dalla prima scena e non prevede alcun sussulto.

Mentre scriviamo, non sappiamo se Malick girerà un altro film, se dovremo aspettare vent’anni o se invece a sorpresa farà capolino alla prossima Mostra di Venezia. Quello che è certo è che il suo ultimo film non è certamente degno del suo nome né sarebbe un adeguato congedo per un regista capace di ben altri risultati.

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