La terra dei morti viventi e l’evoluzione della specie

La terra dei morti viventi è il quarto film della saga zombie di Romero, e segna un punto di svolta nella mitologia del cadavere rianimato

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La terra dei morti viventi va in onda su Italia 2 questa sera alle 21:15 e in replica domani sera alle 23:51

Quando nel 1968 scrisse e diresse La notte dei morti viventi, George Romero non aveva ancora in programma di diventare il rappresentante ufficiale degli zombie al cinema per i successivi cinque decenni. E in effetti ci vollero dieci anni perché il regista americano tornasse a disseppellire e rianimare cadaveri, inaugurando con L’alba dei morti viventi la convenzione secondo la quale qualsiasi film può migliorare se aggiungi “... of the dead”, “... dei morti viventi” al titolo (pensate quanto sarebbe stato bello Titanic of the Dead, o 2001 – A Space Odyssey of the Dead). Da allora Romero ha costruito un meta-universo che si è andato definendo sempre di più film dopo film, e all’interno del quale La terra dei morti viventi del 2005 è un punto di svolta: è il capitolo del franchise nel quale lo sguardo dell’autore si sposta definitivamente sugli esseri umani, e contemporaneamente è quello che dedica più spazio e attenzione a quello che, in mancanza di espressioni più efficaci, potremmo definire “approfondimento psicologico”, applicato però a un branco di cadaveri ambulanti.

La terra dei morti viventi e il dilemma dello zombie corridore

C’è una lunga intervista a Romero che risale al luglio 2004, un anno prima dell’uscita di La terra dei morti viventi, nella quale il regista racconta una serie di aneddoti interessanti sulla lavorazione di un film uscito a vent’anni di distanza dal precedente, in un panorama cultural-zombesco completamente diverso da quello che Romero aveva lasciato con Il giorno dei morti viventi. Perché nel frattempo era successo il 2002, era successo Danny Boyle che con 28 giorni dopo aveva trasfigurato irrimediabilmente la figura dello zombie trasformandolo in “infetto” e insegnandogli a correre, e contemporaneamente era successo anche Paul W.S. Anderson che con Resident Evil aveva portato lo zombie movie in territori fin lì inesplorati – quelli dell’action pura, della fantascienza, dell’approccio giapponese al morto vivente e al virus letale.

Simon Baker

A Romero tutto questo piaceva poco, come potete leggere nell’intervista: secondo lui, «gli zombie in teoria sono morti, completamente rovinati», e l’idea di vederli correre, come succedeva peraltro quello stesso anno nel remake del suo L’alba dei morti viventi firmato da Zack Snyder (un film del quale torneremo a parlare al più presto), lo turbava oltre ogni limite. Per Romero gli zombie erano cadaveri ambulanti che si trascinano a fatica finché non vanno in pezzi, e La terra dei morti viventi rappresentava anche una dichiarazione d’intenti: “torno in azione dopo vent’anni”, diceva, “e vi dimostro che so ancora come farvi paura anche se i miei morti viventi non farebbero concorrenza a Bolt”. Romero, peraltro, ci era rimasto male anche perché L’alba di Snyder «ha perso tutto il lato satirico, il discorso sul consumismo. Non vuol dire più niente, anche se resta un ottimo film d’azione»: non è un caso che La terra dei morti viventi sia il meno metaforico e il più esplicitamente politico dei film di zombie di Romero.

La terra dei morti viventi è due film in uno

Visto sotto questa luce, è facile capire come mai La terra dei morti viventi sia un film così ricco (e denso, visto che dura la canonica ora e mezza), a volte fin troppo. Per Romero rappresentava una sfida multipla: era l’occasione tornare a parlare del rapporto tra politica, società, psicologia e morti viventi e per recuperare e portare avanti una serie di discorsi accennati nel magnifico Il giorno degli zombi, ma anche per trovare nuove metafore e nuovi simboli da applicare alla sua mitologia, oltre a essere un kolossal per gli standard romeriani (20 milioni di dollari, il budget più alto dell’intero franchise), e ovviamente una dichiarazione d’intenti riguardo a certe regole del gioco che un paio di ragazzi impertinenti avevano messo in discussione. Il risultato sono due film in uno: quello che parla di zombie è classicamente romeriano e riprende, approfondisce e sviluppa una serie di idee incarnate dal personaggio migliore del capitolo precedente, lo zombie Bub:

mentre l’altro è un classico racconto post-apocalittico e insieme molto umano che funzionerebbe anche se agli zombie sostituiste altri mostri, oppure altri esseri umani, forse persino una catastrofe naturale e senza volto.

Partiamo da quest’ultimo. La notte dei morti viventi era un film minuscolo ambientato in un cimitero e dintorni, mentre L’alba puntava sul centro commerciale infestato come luogo simbolico e metaforico e insieme ideale per un assedio. Il giorno faceva un passo avanti, e per la prima volta raccontava il mondo post-invasione zombie, nel quale gli umani sopravvissuti hanno trovato il modo di riorganizzarsi e cominciare a ricostruire una nuova forma di società; il film si concentrava soprattutto su un gruppo di militari in una base sotterranea, e La terra dei morti viventi fa il logico passo successivo: coinvolgere anche i civili, e raccontare come tutta l’umanità è sopravvissuta all’apocalisse. L’ambientazione diventa così un’intera città, Pittsburgh in Pennsylvania, che Romero scelse perché chiusa da due lati da un fiume e con un solo punto d’ingresso via terra, facilmente controllabile da chi deve difenderla da una fiumana di cadaveri che camminano; e il film è quindi una raccolta di storie di persone che vivono in questo nuovo mondo, che per molti versi assomiglia pericolosamente al vecchio.

Riley, Cholo e Slack

La Pittsburgh del post-zombie è, come capita spesso nelle distopie e nelle post-apocalissi, una città dominata da una gerarchia del potere fortissima. Ci sono i ricchi, che vivono in un complesso residenziale chiamato Fiddler’s Green e si godono la vita sotto lo sguardo benevolo di Paul Kaufman (Dennis Hopper); e ci sono i poveri, che vivono tra le rovine, per le strade, che cercano di tirare a campare e sognano un giorno di poter essere degni di avere anche loro un posto a Fiddler’s Green. E poi ci sono i ranger, un gruppo di soldati più o meno volontari che si avventurano fuori dalle mura di Pittsburgh in cerca di provviste, massacrando nel frattempo zombie a volontà grazie a una buona dose di armi e soprattutto a Dead Reckoning, un camion corazzato e armato fino alla leva del cambio che, come molte altre cose in La terra dei morti viventi, sembra uscito da Mad Max più che da un film di zombie di Romero.

Asia Argento

L’interesse di Romero è ovviamente per gli strati più bassi di questa società divisa in caste (i ricchi ci sono, certo, ma servono soprattutto per dimostrare perché dovremmo fare il tifo per i poveri). I protagonisti sono i ranger Riley (Simon Baker) e Cholo (John Leguizamo): entrambi sognano di cambiare vita, ma mentre il secondo vuole entrare nelle grazie di Kaufman e trasferirsi a Fiddler’s Green, Riley vuole solo una scusa per andarsene e trasferirsi a nord, in Canada, dove, banalmente, non c’è gente; una motivazione che oggi, nel 2021, dopo un anno di lockdown di vario tipo, ci sembra decisamente più valida di quella di Cholo. Infine c’è Slack, una ex prostituta che si unisce a Riley nella sua missione; non è un personaggio particolarmente scritto, e tutta la sua caratterizzazione è affidata all’interpretazione di Asia Argento, personalmente voluta da Romero per il film e che ripaga tutta la sua fiducia dando vita a uno dei personaggi più deliziosamente volgari di cinquant’anni di film di zombie. Quello che succede tra Riley, Cholo, Slack e il resto del cast di contorno lo lasciamo scoprire a voi, ma la versione breve è che Romero mette in scena una collezione di scontri di potere, di frizioni tra persone che vogliono la stessa cosa ma cercano di ottenerla con metodi diversi e inconciliabili, e in generale una serie di dinamiche tipiche dei film post-apocalittici, e trattate con il gusto e il talento per la caratterizzazione dei personaggi che è sempre stato uno dei suoi punti di forza.

La terra dei morti viventi Uberbub

E gli zombie?

È significativo il fatto che quanto abbiamo detto finora non ha bisogno degli zombie per funzionare. Eppure La terra dei morti viventi non fa quello che invece faranno i successivi due capitoli, Le cronache e Survival of the Dead, e cioè spostare definitivamente l’attenzione sugli umani e trattare gli zombie non più come una metafora ma come un generico pericolo (vale soprattutto per il found footage di Le cronache). Al contrario, gli zombie non solo ci sono e si fanno notare (sono tanti, sono violentissimi, esplodono molto bene quando gli spari), ma hanno una personalità. O meglio, si stanno evolvendo: l’idea che un cadavere rianimato conservi almeno una parte dei ricordi e degli istinti che aveva da vivo era già stata accennata alla fine di L’alba, ed era stata poi approfondita con il personaggio di Bub nel Giorno.

Qui la, chiamiamola così, intelligenza di ritorno è contagiosa: Uber-Bub, come lo chiama Romero, non è solo uno zombie che sta lentamente tornando senziente, ma è anche un insegnante, che si prende cura dei suoi amici non-morti e prova a risvegliare in loro una parvenza di personalità invitandoli a replicare quello che facevano da vivi (è grazie a Bub che abbiamo, per esempio, l’orchestrina zombie-jazz). Curiosamente è un’idea, quella che i cadaveri rianimati abbiano ancora dentro di sé una scintilla di umanità che si può rinfocolare, presente in un’altra opera a base di zombie datata 2005, il romanzo L’estate dei morti viventi di John Ajvide Lindqvist (quello di Lasciami entrare). La nostra teoria è che si tratti di una reazione alla completa disumanizzazione degli zombie e alla loro trasformazione in carne da macello seguita al successo dei film di Boyle e Anderson, un tentativo di ricordarci una delle più terribili verità sugli zombie: anche se esplodono bene, restano pur sempre la nonna, lo zio o il cugino di secondo grado di qualcuno.

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