La spina del diavolo compie vent’anni e li dimostra tutti

La spina del diavolo di Guillermo del Toro è uscito vent’anni fa, e ha lasciato un segno indelebile nel genere

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Mettete subito via i forconi: il titolo del pezzo non vuole essere una critica a La spina del diavolo o insinuare che sia invecchiato – anzi. Uscito nel 2001, esattamente il 20 aprile almeno nei cinema spagnoli, il terzo film di Guillermo del Toro è stato un precursore, un anticipatore, un ispiratore di certe tendenze horror che negli anni successivi avrebbero abbandonato i confini del cinema indipendente messicano per arrivare anche a Hollywood; ed è anche un manifesto della poetica del suo autore tanto quanto lo è il ben più famoso film successivo, Il labirinto del fauno, la metà più spettacolare e visivamente indimenticabile della duologia sulla Guerra civile spagnola. Dalla sua La spina del diavolo non ha creature con gli occhi sulle mani o direttamente senza occhi, “solo” un fantasma, ma quello che gli manca in potenza iconografica istantanea lo recupera in atmosfera e profondità narrativa.

Prodotto da Agustín Almodóvar per una cifra francamente ridicola visto il risultato finale (meno di cinque milioni di dollari), La spina del diavolo è un film costruito su almeno tre diversi livelli narrativi e relativi strati di significato.

La spina del diavolo: livello 1

Al primo livello, che è primo per motivi puramente cronologici nel senso che è il primo che ci viene presentato, abita un film sulla Guerra civile spagnola, e in particolare sull’ultimo anno della Guerra civile spagnola, il 1939, quando i futuri fascisti di Franco stavano cominciando erano a un passo dalla vittoria e il fronte repubblicano stava cominciando a perdere la speranza e a ragionare su cosa fare della propria esistenza da lì in avanti. La guerra di per sé, quindi, si vede poco: del Toro ce ne fa sentire gli effetti, e permea tutto il film, che è ambientato in uno sperduto orfanotrofio gestito da una coppia di fedeli repubblicani, di un’atmosfera di sconfitta, di ultimi giorni dell’impero (o della repubblica) prima dell’inizio di un periodo buio – quello che verrà raccontato in Il labirinto del fauno.

Bimbo stronzo

La spina del diavolo è quindi popolato di figure e oggetti dalla forte valenza politica: vecchi repubblicani che resistono nel loro fortino isolato e che si sono ormai tagliati completamente fuori dal mondo (Casares, il vecchio professore che gestisce l’orfanotrofio insieme a Carmen), giovani repubblicani che hanno abbandonato la rivoluzione per inseguire il profitto (Jacinto, un tempo ospite del luogo, ora custode), una bomba inesplosa sganciata dai fascisti che campeggia nel cortile come eterno monito sul fatto che neanche l’infanzia è al sicuro dalla guerra... del Toro è nipote di immigrati spagnoli in Messico che hanno vissuto questo periodo in prima persona e gliel’hanno raccontato, e La spina del diavolo è anche per loro.

La spina del diavolo: livello 2

Il secondo livello è naturale conseguenza dell’esistenza del primo: la guerra, qualsiasi guerra, fa tanti morti ma fa altrettanti orfani, e il film è tutto raccontato dal punto di vista di Carlos, figlio di un ribelle ammazzato dai nazionalisti che arriva all’orfanotrofio. Il cuore del film, prima ancora del suo lato horror, è tutto nel percorso di crescita di Carlos, che non sa di essere orfano e si ritrova all’improvviso abbandonato in mezzo al nulla con i suoi fumetti e i suoi giocattoli, e un branco di altri bambini altrettanto orfani che fanno a gara per farselo amico – o nemico, non importa, quello che conta è la novità. del Toro si dimostra così non solo un grande regista di tensione e paura, ma anche un delicatissimo narratore dell’infanzia, con un gusto quasi letterario nel dipingere i rapporti tra Carlos e gli altri bambini, dal bullo Jaime al sempre muto Owl.

La spina del diavolo Juacoso

E siccome agli occhi di un bambino è tutto più grosso e misterioso, Carlos scopre quasi subito che, oltre ai suoi coetanei e al personale, l’orfanotrofio è abitato anche da qualcosa d’altro, che è minaccioso per il semplice fatto di esistere pur non facendo nulla di attivo o cattivo. Se quando eravate piccoli avevate una nonna che viveva in una cascina probabilmente già lo sapete: ogni corridoio in penombra, ogni cantina, ogni soffitta, ogni armadio misteriosamente chiuso da anni è foriero di paura apparentemente immotivata ma che in realtà è solo la logica conseguenza del trovarsi di fronte, a dieci anni di età, a qualcosa di incomprensibile o anche solo troppo buio. E così, lentamente ma inesorabilmente, del Toro prende il racconto della vita di un orfanello e lo tinge sempre più di orrore, di voci nella notte, di figure in controluce – arrivando così al terzo livello.

SOS fantasmi

Perché La spina del diavolo è ovviamente anche un film di fantasmi, o fantasma, al singolare: ce n’è uno, ha l’aspetto di un bambino e non fa nulla di particolare, a parte comparire in momenti inopportuni spaventando Carlos (e anche chi guarda: del Toro gestisce i jump scare con la sicurezza di uno che è cresciuto guardando gli horror della Hammer) ed enunciando inquietanti profezie di morte. È qui che La spina del diavolo dimostra di avere vent’anni: se poteste guardarlo oggi per la prima volta senza saperne nulla, e senza sapere che è un film del 2001, potreste pensare che è l’ennesimo “horror ispanofono con i fantasmi” tipo The Orphanage o Mama. Invece fu in questo senso un pioniere (insieme a un altro film uscito lo stesso anno e intitolato The Others, forse lo conoscete) di un approccio quasi esistenzialista all’horror: “che cos’è un fantasma?” si chiede il film nel voiceover di apertura, e si risponde “un’emozione sospesa nel tempo come una fotografia sfocata”.

È vero, c’è un fantasma in La spina del diavolo, ma non è necessariamente spaventoso; è triste, disperato, e certo fa paura quando compare, un po’ perché da bambini è facile spaventarsi per ogni cosa, immaginatevi per una figura spettrale, un po’ perché l’approccio vedo-non-vedo di del Toro funziona come non gli è più riuscito in carriera – in quanto horror puro, La spina del diavolo è il suo capolavoro, e quando in Crimson Peak ha provato a replicare le stesse atmosfere ma guardando a Suspense e Gli invasati invece che al gotico spagnolo non è andata altrettanto bene. Ma il punto è che questo fantasma non vuole fare paura, solo essere ascoltato: uno dei messaggi più chiari e manifesti del film è che “non bisogna avere paura dei morti ma dei vivi”, che è sempre stato valido nella storia dell’umanità, figuratevi durante una guerra civile. E meno male quindi che come figura spettrale del Toro ha optato per una specie di bambolina di porcellana piangente invece di seguire la sua primissima ispirazione, e cioè un Cristo con tre braccia...

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