La Sirenetta, ma è un horror lovecraftiano

La Sirenetta arriva al cinema in live action, ma a noi non basta: nella nostra versione vogliamo più tentacoli e più abissi di disperazione

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Il film si apre, ovviamente, nell’abisso. Immagini di fondali marini illuminati da luci impossibili e popolati di creature deformi e mezze cieche vengono accompagnate da una versione di In fondo al mar in stile Sunn 0))), dieci minuti di rumore subacqueo urticante colorato qui e là con accenni di melodie storpie – si distingue in particolare un flauto distorto, lo strumento di elezione dei Servitori degli Dèi Esterni. Tra le alghe e i sargassi intravediamo una figura sinuosa che nuota abbracciando al petto una conchiglia deforme con dieci paia di occhi sul guscio; la figura ha dei lunghi e flessuosi tentacoli al posto delle gambe e un corpo vagamente umano, sì, ma innaturalmente pallido e allungato. È La Sirenetta che dà il titolo al film: il suo nome, scopriremo poi, è A’R’Lyeh.

L’apparizione di A’R’Lyeh, le cui fattezze umane e aliene al tempo stesso possiamo solo intuire durante questa scena fiocamente illuminata, è accompagnata da una voce profonda e macchiata di una distante follia: è quella di Eric Dexter Ward, il protagonista del film, che ci racconta il suo primo incontro con La Sirenetta. Era cinquant’anni prima, quando Eric faceva il pescatore d’altura per racimolare quattro spiccioli per nutrire la sua povera famiglia: la moglie Lavinia, fragile e indifesa, malata di gotta, tifo e tisi, e i figli Augustus e Randolph, che trascinavano le loro giornate nella piccola cittadina costiera di Innsmouth, scrutando il mare in attesa del ritorno del padre. Ma la pesca all’epoca era un’attività pericolosa e poco remunerativa, e spesso Eric doveva passare intere settimane al largo nella speranza di riempire le reti con qualcosa di diverso dalle entità informi e idiote che sembravano avere sostituito pesci, granchi e cozze.

In un flashback in toni appropriatamente seppiati vediamo così Eric che dorme un sonno disturbato e inquieto nella sua scomoda brandina: è da solo sul suo barchino e circondato dall’immensità dell’oceano, illuminato da stelle che sembrano brillare di un colore sbagliato. A un certo punto Eric si sveglia di colpo urlando, come da un incubo: gli manca il fiato, e sale quindi sopra coperta a prendere un po’ d’aria fresca. All’improvviso le nuvole che coprono la luna vengono spazzate via da un soffio di vento fetido, e il nostro satellite illumina di una luce verdastra una creatura umanoide, sensuale nella sua nudità ma anche respingente con le sue scaglie verdastre e i lunghi tentacoli che le crescono sotto la vita. Eric rimane paralizzato, con una faccia tipo Willem Dafoe in The Lighthouse: nei suoi lunghi anni in mare non ha mai visto nulla di simile.

E non ha mai sentito nulla di simile al canto di A’R’Lyeh: una melodia sbagliata, stridente, abrasiva, sempre stonata ma ipnotica, impossibile da non ascoltare. Una musica che si pianta nel cervello di Eric, ma che dura solo pochi istanti: la magia viene interrotta dall’ingresso in scena di un paguro gigante di colore viola e dagli occhi di bragia, che immobilizza la creatura canterina con le sue chele e la trascina verso l’abisso. Lasciamo Eric basito sul ponte della sua barchetta e seguiamo il paguro e la sirenetta: il primo sta sgridando la seconda, spiegandole che non è ancora giunto il tempo di mostrarsi all’umanità, perché le stelle non sono ancora allineate. “Tuo padre” dice il paguro ad A’R’Lyeh “è ancora profondamente addormentato negli abissi sotto la città che porta il tuo nome, e il suo tempo non è ancora giunto. Cosa te ne fai di un altro cultista se tanto non lo puoi sacrificare?”.

Questo walk and talk (o swim and talk) ci ha infatti portato davanti a un grosso masso di forma non euclidea, che A’R’Lyeh sposta con i suoi tentacoli, rivelando una caverna piena di meraviglie. È la Stanza del Culto, dove la sirenetta tiene prigionieri centinaia di marinai che ha intrappolato nel corso degli anni, in attesa del risveglio di suo padre: A’R’Lyeh non vede l’ora di preparargli la miglior colazione della sua vita, croccante e saporita, e nulla scrocchia meglio di un mucchio di ossa umane. A’R’Lyeh tiene gli umani in animazione sospesa in speciali strutture a forma di bara e costruite con un metallo sconosciuto a chi non vive negli abissi: un lento e inquietante carrello ci porta in giro per la stanza e si sofferma davanti a una di queste bare – aperta, vuota.

Torniamo su Eric, che a sua volta è tornato a casa. Non è però più l’Eric che conosciamo: inizia qui una lunga sequenza onirica nella quale assistiamo al declino psicofisico del marinaio, che ogni notte invece di dormire sale sul tetto della sua casupola per guardare il mare e mormorare melodie sbilenche, e di giorno sta a letto, sotto le coperte, a mugolare e lamentarsi, mentre la sua barchetta marcisce al sole di Innsmouth coprendosi di cirripedi fosforescenti e mucillagini di vari colori. La terraferma non lo interessa più: Eric, ormai, sogna solo l’abisso.

Ed è dall’abisso che A’R’Lyeh sta pianificando la sua fuga. “Eric non è come gli altri” continua a ripetersi. “Eric è coraggioso. Questa volta mi accetterà invece di fuggire a gambe levate o di strapparsi i capelli e gli occhi e le viscere. Questa volta non dovrò catturarlo”. (taglio brusco, stacco su Eric che fissa l’infinito canticchiando “In fondo al mar”). La sirenetta è stufa di aspettare, è stufa di conoscere il mondo degli umani solo grazie alle poche frasi di senso compiuto che i suoi prigionieri mormorano tra una blasfemia e un gorgoglìo. “Questa volta, solo questa volta, Eric verrà da me”. Facile a dirsi, ma come può un essere umano, con la sua limitata comprensione dei meccanismi cosmici, accettare una creatura tentacolare che non ha mai precisamente la stessa forma per più di qualche istante e la cui voce farebbe impazzire anche chi è già pazzo?

A’R’Lyeh sa che nell’universo c’è solo un’entità che ha la risposta al suo dilemma: Shub-Niggurath, il capro nero dei boschi dai mille cuccioli. In un training montage anni Ottanta vediamo quindi la sirenetta compiere il pericoloso viaggio fino al vortice extradimensionale all’altro lato del quale risiede il signore del bosco dalla prole innumerevole. Shub-Niggurath promette ad A’R’Lyeh che la aiuterà a superare le limitazioni della sua forma fisica attuale; in cambio chiede solo il cuore di una stella, o in alternativa l’anima di un essere umano. La sirenetta, accecata dal desiderio di camminare tra gli inferiori, accetta lo scambio, e i suoi tentacoli cominciano a cambiare forma tra le atroci sofferenze della nostra eroina. Alla fine del cronenberghiano processo, A’R’Lyeh emerge completamente cambiata: ora, al posto dei tentacoli, ha una bella coda da pesce.

Qui il film si sovrappone quasi interamente con l’originale Disney. A’R’Lyeh (che ha cambiato il suo nome nel più pronunciabile “Ariel”) nuota in superficie, incontra di nuovo Eric (che nel frattempo è diventato il fantasma di sé stesso, ha una lunga barba incolta e due occhiaie che potrebbe usare per pescare, se solo gli oceani non fossero infestati di cefalopodi velenosi), ci parla, scopre che non può seguirlo sulla terraferma, va da Ursula, si fa fare un paio di gambe, et cetera: la storia la conoscete. Ci sono ovviamente delle piccole/grandi variazioni nel rapporto tra Ariel ed Eric: memorabile per esempio la gag di lei che vede un crocifisso, chiede a Eric di cosa si tratti, e mentre lui le sta spiegando del sacrificio del figlio di Dio per la salvezza dell’umanità lei gli scoppia a ridere in faccia gorgogliando blasfemie ed enunciando, in una lingua morta o forse mai vissuta, una profezia che promette eterna sofferenza a tutte le creature viventi.

O la scena in cui Eric offre ad Ariel un piatto di polpo in umido, causandole una crisi di pianto. Per non parlare del rapporto che si sviluppa tra la sirenetta e la morente moglie di Eric, che conosce le mire del marito ma non ha la forza di metterlo in guardia contro quella ragazza che sembra tanto dolce ma che di notte bisbiglia invocazioni a divinità più vecchie del pianeta Terra. Un’altra differenza rispetto al racconto originale è che A’R’Lyeh non si innamora di Eric: lo trova però molto simpatico, e tra sé e sé continua a ripetersi che quando si tratterà di sgozzare i suoi agnelli sacrificali, lui sarà l’ultimo, così potrà dire di avere vissuto un po’ più a lungo degli altri.

Eric, invece, purtroppo si innamora di Ariel, e continua a tormentarla di domande: da dove vieni? Chi sono i tuoi genitori? Possiamo vederci tutti insieme per un barbecue così ci conosciamo? Perché ogni tanto trovo le tue lenzuola macchiate di inchiostro? Perché gorgogli? Cos’è quel suono di flauto che ogni tanto mi sembra di sentire in lontananza nelle notti di tempesta? Cosa significa “vengo dall’abisso”? È vero che se guardi troppo a lungo dentro l’abisso et cetera? Eric ormai non riesce a pensare ad altro. Ha venduto la sua barchetta per comprarsi libri esoterici, trattati sul vuoto cosmico e un antico bestiario medievale bandito da ogni istituzione religiosa e laica del mondo; poi si è reso conto di non saper leggere. Gli rimane solo una soluzione: tornare là, in mezzo al mare, dove tutto è cominciato. Eric vende i suoi libri esoterici e bestiari medievali per comprarsi una nuova barchetta, un po’ più piccola e un po’ più scassata della precedente. Poi, in una notte senza luna, prende il largo.

Dopo quelle che sembrano ore di navigazione ma potrebbero essere istanti, la luce del faro scompare all’orizzonte ed Eric si trova da solo in mezzo all’oceano più buio che abbia mai visto – persino le stelle sono scomparse, eppure in cielo non c’è una nuvola. E allora perché piove a dirotto? Un fulmine colpisce l’albero della barchetta di Eric: il povero pescatore è ormai alla deriva su un pezzo di legno galleggiante. In lontananza, in mezzo ai lampi, Eric intravede qualcosa: è davvero la sagoma di una città, illuminata da una luce verdastra e malsana? E dal gigantesco portone che si apre come una ferita in mezzo alle mura della città sta davvero uscendo un capro nero con un’imbarazzante erezione?

È arrivato il momento: Shub-Niggurath esige il suo tributo. Eric non capisce, ma inconsciamente sa di essere pronto: a cosa gli serve la sua anima, in fondo, se non può avere Ariel? La sirenetta, però, non lascerà che il capro nero dai mille cuccioli faccia a Eric quello che lei stessa aveva in programma di fare: il pescatore non se n’è accorto, ma Ariel l’ha seguito! Non è però più Ariel, ma A’R’Lyeh, tentacoli e tutto: il sortilegio di Shub-Niggurath è terminato, e ora la principessa degli abissi è tornata in tutto il suo blasfemo splendore per riprendersi tutto quello che è suo. Cioè Eric: in un’epica battaglia durante la quale il poveraccio compare solo in qualche reaction shot con la faccia basita, la sirenetta e il capro nero combattono per anni, secoli, millenni, strani eoni durante i quali anche la morte può morire.

Eric, però, è umano, e non ha strani eoni davanti a sé, ma solo qualche decina d’anni: mentre la sirenetta e Shub-Niggurath se le danno di santa ragione, il nostro eroe riemerge dal suo stupore e decide di darsela a gambe mentre nessuno lo guarda. Lo ritroviamo la mattina dopo, aggrappato di nuovo a un pezzo di legno e trascinato a riva dalla corrente. Al ritorno a casa scopre che la sua piccola avventura in mare è durata qualche mese: la moglie Lavinia è morta, e i figli sono stati spediti in un orfanotrofio. Eric è solo, e nessuno al mondo sa che è ancora vivo; non ha neanche più la sua barchetta. Ariel è persa per sempre, intrappolata in una lotta infinita con una divinità esterna. Nella città perduta di R’Lyeh, Cthulhu continua a dormire, in attesa che le stelle siano finalmente allineate.

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