La saga di Jurassic Park poteva avere un destino diverso rispetto a quello di Jurassic World?
Jurassic Park è il film su cui è difficilissimo fare un sequel, figurarsi una nuova trilogia. Le cose dovevano andare per forza così?
Come si può sfruttare la meraviglia di un film che parla dello sfruttamento delle meraviglie senza diventare un villain? Ovvero: Jurassic Park poteva portare avanti la saga senza finire esattamente come le macchine di intrattenimento che contestava? Probabilmente no, come ha ammesso tra le righe Colin Trevorrow in un’intervista ad Empire nel settembre 2022. Parlando di Jurassic World: il dominio ha detto di aver creato di proposito una situazione diversa dagli altri film per cambiare il DNA del franchise. Una storia su dei personaggi in un mondo dove sono costretti a coesistere con i dinosauri è un qualcosa di mai visto nella saga. “Avrebbe dovuto esserci solo un Jurassic Park, dal momento che è intrinsecamente impossibile renderlo un franchise” ha ammesso.
Paragoni (e seguiti) impossibili
Il talento di scrittura di Crichton è quello di delineare mondi poco fanta e molto scientifici che si trovano a un crocevia. Un punto cruciale in cui si devono confrontare con le loro scoperte tecnologiche, decidere cosa diventeranno. In questo senso il suo stile di racconto è radicalmente opposto a quello che richiede un franchise. Ovvero un mondo che generi tante storie, non un mondo che possa generare una specifica domanda, come nel caso di Jurassic Park.
Così Jurassic Park si è trovato a soffrire del complesso della Morte Nera. Ovvero a costruire e ricostruire la stessa cosa, con leggere variazioni e con gli stessi punti deboli. Il colpo di grazia per la nuova saga è stato non evitarlo e soprattuto far ammettere ai personaggi questa cosa. Abbondano i dialoghi meta, dove i soggetti si fanno interpreti del pensiero degli spettatori. Frasi come “ancora più grosso questa volta il dinosauro?” sono il sintomo di situazioni sbagliate.
L’idea della seconda trilogia
Il dramma dei sequel, intesi come li pensava l’industria vent’anni fa, è quella di raddoppiare ogni volta. Tutto deve diventare più grande per attirare il pubblico con promesse ancora più esorbitanti. Esattamente come il Jurassic Park!
Allora l’idea di espandere a livello globale la presenza dei dinosauri è stata, come detto da Trevorrow, l’unica scelta possibile per cambiare le premesse e quindi il DNA della saga. Una cosa si era capita: ieri come oggi il pubblico ha dimostrato di avere una gran voglia di vedere la potenza del T-Rex, e l’agilità dei velociraptor. Una saga fatta solo per vedere dinosauri. E non c'è niente di male, anzi!
Molto simile, per struttura, pregi e difetti, alla nuova trilogia di Star Wars, anche la saga di Jurassic World è sembrata rispondere alle esigenze del momento senza una grande pianificazione. Jurassic World – Il regno distrutto aveva portato però una prospettiva interessante recuperando, in parte, la tonalità horror. L’intero progetto poteva diventare una scatola dei desideri, affidata a registi diversi, dando -fino a una certa misura- interpretazioni diverse di una stessa situazione. Rinnovarsi quindi nello stile, più che nelle premesse.
Ogni salto dello squalo richiede tempo per essere individuato, l’impressione è però che rompere i confini (fisici e narrativi), così tanto esplorati ed esauriti, abbia creato più problemi che benefici. Ci si è buttati così sul fattore nostalgia. Alan Grant, Ellie Sattler, Ian Malcolm, servono a dare una sorta di circolarità, ma non riescono più ad essere veri personaggi. Tutto cerca di ritornare alla fine, in una storia che invece è assai poco consequenziale e molto episodica.
Jurassic Park: un destino segnato?
Il film di Spielberg nasceva dal limite (tecnico e tecnologico), la nuova saga nasce dalle infinite possibilità. Il risultato è evidente, in sfavore dei nuovi. Poter realizzare tutto ha depresso la creatività. I dinosauri sono magnifici visivamente, eppure riescono solo a sprazzi ad essere personaggi veri. I visitatori del parco hanno sempre avuto la propensione ad umanizzare le creature, di solito quando lo fanno vengono poi mangiati. La nuova trilogia ha invece messo da parte la distanza tra uomo e natura, coerentemente con la sua vocazione ecologista. Ha quindi dato pari peso sullo schermo sia alle persone (puri strumenti di trama per andare da una scena ad un’altra) che ai dinosauri (vero oggetto di interesse del pubblico).
L’unico modo per rinnovare le cose è quello di rompere gli obblighi contrattuali dei parchi a tema. Il di più. Per gestire un materiale ingombrante come i dinosauri, come Spielberg insegna, si deve andare sul “di meno”. Provare quindi una via in sottrazione, che è esattamente quella rappresentata nella scena capolavoro del primo incontro di Alan Grant (lo spettatore) con il brachiosauro. Aspettare a far entrare in scena, costruire l’atmosfera, far sentire l’odore ma non vendere subito il gusto. Costruire insomma l’emozione.
Sarebbe bello, se non fosse che diventa sempre più difficile di sequel in sequel. Perché non si può ripetere l’incontro con i brachiosauro quando è già avvenuto. Li abbiamo già visti, si passi al prossimo! Così, giustamente, Jurassic World ha innescato questo meccanismo di tensione e di graduale rilascio con le nuove creature (i famosi dinosauri “sempre più grandi”). Ad ogni svelamento consegue una diminuzione della meraviglia. Si entra nella normalità. E se un qualcosa di incredibile come i dinosauri viene normalizzato, fino ad essere ridotto ad animale domestico, resta ben poco da fare se non decretare la fine delle possibilità narrative.
Insomma, è la maledizione dei sequel che la prima saga di Jurassic Park aveva ben previsto. Ed era inevitabile, perché inscritta nel DNA della saga. È una trappola inserita dal primo film nella sua storia. Cioè l’impossibilità di replicarsi all’infinito. Detto in altre parole: o il franchise muore prima di tradire se stesso, o vive tanto a lungo da diventare un parco a tema.