La peggiore disattenzione agli Oscar 2010

Tra tutte le scelte fatte nelle nomination agli Academy Awards, ci si è dimenticati di un titolo straordinario, perfetto punto di incontro tra avanguardia e ironia. Si tratta di...

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Rubrica a cura di ColinMckenzie

... Mary and Max, che purtroppo non figura tra i candidati come miglior lungometraggio animato. Ogni tanto (purtroppo, molto raramente) ti viene da pensare più che aver visto una pellicola, di aver assistito a un autentico miracolo. Capita quando un film mette assieme sensazioni e contenuti decisamente contrastanti, materiale che normalmente dovrebbe portare al disastro, ma che invece per qualche strano motivo dà vita a una pellicola pressoché perfetta. Insomma, come certi piatti di alta cucina che inseriscono cibi che mai penseresti di veder accostati, ma che poi in bocca risultano una sinfonia imponente.

Ecco, questa sensazione estatica mi è stata provocata da Mary and Max, un film in animazione passo uno firmato da Adam Elliot. Qualcuno (pochi, temo) lo conosceranno già grazie a Harvie Krumpet, cortometraggio che nel 2003 ottenne l'Oscar nella relativa categoria. Già lì si erano visti i suoi temi preferiti: la malattia (i due protagonisti, padre e figlia, soffrono di gravi problemi fin dall'infanzia); un incredibile mix di malinconia e crudeltà apparentemente difficile da gestire; una follia simpatica che spesso provoca la commozione dello spettatore; e dei rapporti umani complicati ma decisamente originali.

Arrivato al suo primo lungometraggio, non solo Elliot conferma le ottime promesse fatte con quel lavoro, ma se possibile le supera, tanto da portare il sottoscritto a porsi dei dubbi amletici. Come è possibile dar vita a due personaggi così belli, complessi e originali (peraltro, con le ottime voci di Toni Collette e Philip Seymour Hoffman) come questi, una ragazzina che cerca di uscire con la poesia dalla sua vita difficile e un uomo autistico di mezz'età? E' come è possibile dar vita a un prodotto di 90 minuti che si vede senza problemi, per poi rendersi conto che i dialoghi sono praticamente assenti e che quasi tutto è legato a pensieri interiori e lettere scritte (insomma, quanto teoricamente di meno cinematografico ci sia)? E, tornando al discorso iniziale, come si fa a mettere d'accordo tanti riferimenti (citazioni sarebbe un'offesa per Elliot) così variegati?

A tratti, ti ricorda il miglior Tim Burton, magari quello di Frankenweenie o del libro illustrato La morte malinconica del bambino ostrica e altre storie, capace di tirar fuori le emozioni dell'infanzia come pochissimi. O, in un ambito completamente diverso, l'autoironia ebraica del primo Woody Allen (tanto che, in una scena in cimitero, c'è una tomba con scritto 'Adam Elliot'). Ma ti viene da pensare anche alla follia cinica di Chuck Palahniuk (l'autore di Fight Club) o, continuando con gli accostamenti arditi, la poesia solitaria della prima mezz'ora di Wall-E. Il tutto condito, molto probabilmente, da qualcosa di profondamente autobiografico.

La realtà è che Adam Elliot, almeno a giudicare da questo film e dal precedente corto, è semplicemente un genio. E che tra trent'anni, riferendosi a qualche nuovo regista promettente (d'animazione o live action), qualcuno dirà "mi ricorda Elliot"...

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