La nona porta, l’appassionante viaggio infernale di Polanski senza arrivo
La nona porta è un film che ritorna spesso nelle visioni casalinghe. Così imperfetto eppure affascinante è un viaggio senza meta.
La nona porta è uno di quei film che pochi hanno conosciuto in sala, ma che molti hanno sentito dopo. Nei passaggi in televisione, nelle edizioni home video, ma soprattutto nei poster e nelle immagini che, puntualmente, popolavano le videoteche e i noleggi VHS\DVD. Il film di Roman Polanski aveva tutti gli elementi perfetti per attirare ad una visione casalinga. Un aggancio efficace, qualche immagine sufficientemente inquietante, quel senso del proibito che non invoglia a vederlo con altre persone ma da soli in una camera buia. Oggi lo si può vedere su Netflix.
La nona porta attrae e seduce
C’è Johnny Depp, affascinante Dean Corso, esperto di libri rari. C’è un attore di spessore come Frank Langella, che interpreta Boris Balkan, un collezionista che commissiona la ricerca delle due copie sopravvissute (oltre a quella in suo possesso), del libro Le nove porte del regno delle tenebre. A questo si aggiunge la presenza inquietante e dagli occhi artificialmente verdissimi (con un terribile effetto alla Incredibile Hulk) di Emanuelle Seigner. La ragazza. Non ci è dato sapere di più su di lei. Pedine perfette per una trama che il regista ha già dimostrato di saper maneggiare al meglio.
Ci sentiamo un passo avanti ai personaggi
Si ha l’impressione di capire tutto molti minuti prima del protagonista. Sia sulla veridicità delle cose che sulle vere intenzioni degli antagonisti (e anche la loro identità). I tre libri sono una chiave per aprire la nona porta. Bisogna verificare quale sia quella autentica. Come ampiamente immaginabile non c’è una copia che non sia originale, sono infatti volumi con piccole differenze inserite appositamente da chi le ha prodotte (un uomo o Lucifero in persona?). Unite, contengono la forma di un rituale per entrare in contatto con il signore delle tenebre. Omicidi, messe nere, collezionisti ossessionati fino alla follia, suicidi, cadaveri violati per assomigliare alle incisioni di tal Aristide Torchia. Dean Corso attraversa tutto questo senza stupirsi troppo. Il suo atteggiamento è sempre funzionale al proseguimento del mistero e quindi all’intrattenimento.
Polanski è sempre Polanski, anche nei film minori, così La nona porta riesce a trovare un’ambiguità anche laddove palesemente non c’è. Nessuno dubita per un attimo che le sette e i potenti che cercano il libro abbiano ragione nel cercare di ottenerne i poteri. Eppure nel primo, finto, finale si distrugge tutta questa certezza. Quando dal fantasy ritorna ad un piano più terreno, il film appassiona come caccia all’indizio.
I libri sono importanti nel loro aspetto fisico e tangibile
Polanski è un regista delle pagine e dei fruscii della carta. Non è la prima volta che manifesta il suo fascino per la materialità dei fogli e delle parole scritte. Il culmine di questa passione sarà con il film successivo, L’uomo nell’ombra dove i fogli al vento chiudono magistralmente l’ultima inquadratura. Questo aspetto è così riuscito che La nona porta potrebbe vivere solo di dettagli dei libri commentati dalla voce narrante e sarebbe da applausi.
Invece La nona porta si conforma ad altro cinema, accumulando a lungo andare una trama sempre meno interessante e già vista. Mette sempre di più a dura prova l’immedesimazione. Il problema non è che il personaggio di Johnny Depp fumi tutto il tempo, ma che lo faccia vicino a libri antichissimi conservati con cura! Pure con un bicchiere di vino nell’altra mano. Che tutti agiscano senza conseguenze, che gli omicidi non siano seguiti dalla polizia e che si parli solo a frasi a metà. Più si avvicina alla conclusione magica, più le dinamiche interne diventano improbabili. Si arriva a botte in testa in stile cartoon che annebbiano la vista e fanno svenire; goffi tentativi per travolgere le vittime con la macchina; insensate manovre in strada per non farsi seguire; ad un certo punto un personaggio planerà letteralmente vicino a Corso il quale non si stupirà troppo della cosa.
È difficile capire le intenzioni, a questo punto. Perché o La nona porta è un film che è sfuggito di mano, o è concepito male in partenza. Perché tiene avvinghiati facendosi perdonare molto in funzione di un crescendo continuo della posta in gioco. Un viaggio nel mistero a cui manca però il punto di arrivo.
Sarà svelato nelle prossime righe, leggete a vostro rischio.
Boris Balkan riesce a completare il rito con le pagine sopravvissute delle tre edizioni del Le Nove Porte del Regno delle Ombre. Corso viene impiantato nel terreno (ancora un gesto cartoonesco) e costretto a vedere. Qualcosa non va, Balkan prende fuoco, nessun Lucifero appare. E fin qui sarebbe una soluzione brillante, in perfetto equilibrio tra superstizione e pragmatismo realista. Invece Polanski scivola ancora nel fantasy più imbarazzante con una scena d’amore tra “la ragazza” e Dean Corso all'aria aperta mentre il resto brucia.
Infine il colpo di grazia: Emanuelle Seigner, che scopriamo essere la materializzazione della prostituta di Babilonia dell’Apocalisse, spiega che il rito non ha funzionato perché una pagina delle 9 era falsa. Dà quella vera. Corso ritorna sul luogo per completare l’apertura della nona porta.
E quindi?
E quindi la storia tradisce se stessa, cioè il suo costante accumulo di tensione che ha portato da un livello personale a una minaccia globale. Si ritorna dopo innumerevoli morti, distruzioni e complotti, a un finale che riguarda una singola persona, la più svogliata di tutte. Un filo prima dell’arrivo si conclude il viaggio di Dean Corso. Pensavamo fosse quello di un ricercatore di verità, invece il twist ci convince che sia stato un rapido processo di dannazione. Lo si capisce, non lo si sente.
Così La nona porta è un cammino di scoperta per molti versi affascinante, soprattutto considerato quando raramente vengono fatti film così oggi. Si perdona tanto, fino a che, pur con tutta la buona volontà, non si riesce più a stare al gioco. All’ultimo fotogramma si chiede una soddisfazione liberatoria. Polanski invece ci danna e non ce la dà. Lui ride, malvagissimo. Noi no.
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