La mia vita a Garden State, vent’anni dallo sfogo di Zach Braff

La mia vita a Garden State arrivò nel momento più buio della vita di Zach Braff, che decise di trasformare i suoi turbamenti in una sceneggiatura

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La mia vita a Garden State compie vent’anni: debuttò al Sundance Film Festival nel gennaio 2004

Ancora oggi non è chiarissimo cosa passasse per la testa di Zach Braff poco più di vent’anni fa, quando si mise a una scrivania (immaginiamo, magari in realtà era a letto) a scrivere la sceneggiatura di quello che sarebbe diventato il suo primo film da regista – un’esperienza che da allora l’attore diventato famoso per Scrubs ha ripetuto solo un’altra volta. Lui stesso non è mai entrato nei dettagli nelle interviste successive all’uscita del film: qui per esempio parlava genericamente della sua “battaglia contro qualcosa”. “Mentre lo scrivevo, speravo di riuscire a sopravvivere a quella che chiamerei ‘crisi di un quarto di età’ (nel 2004 Braff andava per i trenta), e dalla depressione, e fantasticavo che sarebbe arrivata la donna perfetta a salvarmi”. Il risultato di questa crisi fu quella che ancora oggi è considerata una piccola gemma, ma che ha anche attirato parecchie critiche a posteriori per… be’, ci arriviamo.

La mia vita a Garden State e la crisi di un quarto d’età

Non sapremo mai di preciso quanto ci sia di autobiografico in La mia vita a Garden State e quanto sia invece frutto di invenzione cinematografica, ma tutto il film ha quell’aria di vita vissuta che rende tutto sommato inutile fare la distinzione. In un certo senso la storia è il negativo di uno degli archetipi classici della commedia romantica moderna, cioè “donna in carriera torna al suo paese natale e lì riscopre sé stessa e pure l’amore”. Qui abbiamo invece un uomo in carriera, o quasi: Andrew Largeman è un attore agli esordi che fatica a trovare ruoli (il che ci fa pensare che Braff abbia cominciato a scrivere il film PRIMA del successo di Scrubs), e che lavora quindi come cameriere in un ristorante vietnamita di Los Angeles. L’occasione del ritorno al natìo New Jersey arriva con la morte della madre, e ci permette tra l’altro di fare un inciso e una critica all’adattamento italiano del titolo: il “Garden State”, lo Stato-giardino, è il New Jersey stesso, e la traduzione avrebbe dovuto essere “La mia vita nel Garden State”.

Semantica a parte, La mia vita a Garden State è, in superficie, un film molto semplice, che sfrutta un canovaccio ben noto e che va a toccare un tema che è onnipresente a Hollywood come quello del ritorno alle radici e del contrasto tra gli Stati Uniti rurali e quelli ultraurbani di Los Angeles, New York e simili – d’altra parte le persone che scrivono queste storie hanno spesso compiuto esattamente questo percorso, il che spiega come mai il cinema di Hollywood, che sia comedy, drama o dramedy, pullula di storie che parlano di tornare a casa e riconnettersi con le proprie origini e la propria famiglia. Braff, nato appunto nel New Jersey e cresciuto in posti con nomi tipo “Arancia del sud” e “Bosco di aceri”, è una di queste persone, e si vede: quando non parla d’amore, il tono generale dell’opera è al contempo annoiato dalla banalità della “gente di provincia” ma anche vergognoso, come se uno degli scopi di Braff fosse chiedere scusa alla sua terra per averla abbandonata.

Riferimenti altissimi

A fronte di un’architettura narrativa così semplice, la differenza in un film come La mia vita a Garden State la fa l’esecuzione. Braff sceglie di interpretare il suo Andrew come se vivesse sempre due passi a destra della realtà – il film inizia letteralmente con un sogno nel quale il nostro eroe è su un aereo in fiamme che sta precipitando, e lui rimane impassibile mentre la gente intorno a lui impazzisce di terrore – e solo occasionalmente si degnasse di far caso al resto del mondo: è un personaggio che ha più di un tocco del Woody Allen degli anni Settanta (non a caso lo stesso Braff cita Io e Annie come una delle sue principali ispirazioni), ma più silenzioso e mumblecore, con un tocco di Wes Anderson ma più indie da primi anni Duemila – fa impressione pensare che sia uscito per cinque anni prima di (500) giorni insieme, un film che deve tantissimo a Zach Braff.

Ci fu addirittura chi lo paragonò a Il laureato, per il modo realistico e quindi disturbante in cui parla di quel tremendo periodo che è il passaggio all’età adulta; Braff negli anni ha citato anche Harold e Maude, e insomma più in generale La mia vita a Garden State è anche un film cinefilo e raffinato, scritto e diretto da qualcuno che conosce bene la materia. E poi, e qui arriviamo al discorso accennato all’inizio, è un film che ha avuto delle conseguenze; uno di quelli che viene citato per descrivere o spiegare film successivi. Il motivo è riassumibile in due parole: Natalie Portman.

Lo scabroso caso della Manic Pixie Dream Girl

La mia vita a Garden State è infatti passato alla storia per aver sostanzialmente inventato, o quantomeno formalizzato e definito con precisione, il trope della Manic Pixie Dream Girl, cioè la ragazza ottimista e un po’ pazzerella che ha tutti i pregi del mondo e che sembra esistere esclusivamente per completare l’arco narrativo del protagonista. Storicamente il termine venne inventato un anno dopo il film di Braff, in riferimento al personaggio di Kirsten Dunst in Elizabethtown, ma venne retroattivamente applicato anche in quello stesso pezzo a Samantha detta Sam, che compare per caso nella vita di Andrew e passa il resto del film a impegnarsi per migliorarla. Anche se non conoscevate ancora il termine, dovreste aver capito che la MPDG è uno stereotipo invecchiato in fretta: all’inizio era una cosa carina (con centinaia di articoli tipo “Ecco la lista delle 10 migliori Manic Pixie Dream Girls della storia del cinema”!”), ma ci è voluto relativamente poco perché venisse considerato sessista e un po’ misogino.

Braff ha risposto a queste critiche nell’unico modo possibile: ammettendo che sì, ha scritto quel personaggio esattamente per quel motivo. La mia vita a Garden State è un film autobiografico che parla però non solo di passato e presente ma anche del futuro che l’attore sognava mentre scriveva la sua sceneggiatura; e se hai trent’anni, sei single, depresso e ti senti un fallito, è così strano ritrovarsi a sognare l’arrivo dell’equivalente femminile di un cavaliere sul suo cavallo bianco, che ti salva la vita e che non ha bisogno di salvare la propria?

Che poi quel tipo di personaggio sia stato stravolto, abusato e spremuto come un limone fino a venire banalizzato o addirittura frainteso, be’, non è certo colpa del film di Zach Braff, proprio come Halloween Kills non è colpa di John Carpenter. L’ex JD di Scrubs aveva una storia che gli rodeva dentro, e l’ha regalata al pubblico nella maniera più grezza e sincera possibile; quello che poi il pubblico (e il resto di Hollywood di conseguenza) ne ha fatto è un altro discorso.

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