La leggenda del re pescatore, compie trent’anni il film con il quale Gilliam provò a non fare Gilliam (e non ci riuscì)

La leggenda del re pescatore, il film con il quale Terry Gilliam provò a fare qualcosa di diverso dal suo solito, compie trent’anni

Condividi
Se La leggenda del re pescatore uscisse oggi, Jack Lucas sarebbe un influencer, avrebbe un podcast dal titolo provocatorio tipo Jack Talks Shit e le sue parole avrebbero esattamente lo stesso effetto che avevano quelle del Jack Lucas originale. Che era un DJ radiofonico, un Rush Limbaugh più che un Joe Rogan, ma le cui parole avevano lo stesso potere distruttivo – su sé stesso e sugli altri – che avrebbero oggi, a trent’anni dall’uscita del film di Terry Gilliam. È un modo per dire che in tre decenni La leggenda del re pescatore è invecchiato pochissimo, e non ci vorrebbe nulla ripensarlo per i c.d. “nostri tempi”, aggiornando un paio di dettagli e riproponendo per il resto la stessa storia, la stessa drammatica, comica, ridicola, tragica e commovente vicenda che Richard LaGravenese si inventò all’inizio degli anni Novanta, e che segnò un punto di svolta nella carriera del suo regista.

Nel 1991, Terry Gilliam non voleva più fare Terry Gilliam, come racconta in un’intervista che trovate sull’edizione home video del suo terzo film, I banditi del tempo. Che fu il primo capitolo della Trilogy of Imagination, tre film indipendenti dal punto di vista narrativo ma tenuti insieme da una serie di fili rossi tematici: lo scontro costante tra ordine e caos, la differenza tra quello che si vede in superficie e l’essenza delle cose, la soffocante normalità del quotidiano e il potere dell’evasione, e ovviamente l’importanza e anche la potenza delle storie, intese come un modo per raccontare la realtà invece di viverla, e dunque piegarla alle nostre esigenze e renderla più sopportabile.

Jeff

I film della trilogia sono, oltre a I banditi del tempo, Brazil (una distopia kafkiana che parla, tra le altre cose, del potere schiacciante e incomprensibile della burocrazia) e Le avventure del Barone di Munchausen (la tragicommedia di un illuso e un film su come l’illusione possa arrivare a sostituire la realtà, e le storie a prendere il posto delle cronache). Tre opere che hanno apparentemente pochissimo in comune ma che sono percorse dalle stesse tematiche – che resteranno irrimediabilmente appiccicate a Gilliam negli anni successivi, al punto che con il senno di poi l’idea della Trilogy of Imagination perde un po’ di senso a fronte di una carriera che ha proseguito sugli stessi binari per anni. A partire proprio da La leggenda del re pescatore, il film con il quale Gilliam provò a staccarsi da sé stesso, fallendo rovinosamente.

Terry Gilliam ha sempre avuto un rapporto pessimo, da artista fieramente indipendente (se chiedete a lui e al suo fandom) o da capriccioso incapace di comprendere le necessità commerciali dietro alla realizzazione di un film (se chiedete a un po’ dei produttori con i quali ha lavorato). Non gli piace avere per mano troppi soldi: un po’ non sa cosa farsene, vista la sua predilezione per gli effetti pratici e l’amore per l’arte dell’arrangiarsi. Soprattutto non gli piace trovarsi sul set gente in giacca e cravatta che armata di cartellette rigide con fogli pieni di proiezioni e risultati di test screening gli spiegano come cambiare il suo film. E quindi per La leggenda del re pescatore decise di dare un taglio al passato, e tornare a una dimensione anche finanziaria più intima.

Robin e Amanda

Non solo: La leggenda del re pescatore è il primo film della sua carriera nel quale non compare alcun membro dei Monty Python. È anche il primo film della sua carriera non scritto da lui: la sceneggiatura fu affidata a un allora quasi esordiente Richard LaGravenese, che nel giro di pochi anni scriverà I ponti di Madison County, L’uomo che sussurrava ai cavalli e La piccola principessa di Alfonso Cuaron. E ovviamente costò meno dei predecessori: 24 milioni di dollari, contro gli oltre 40 di Munchausen. Insomma: doveva essere una svolta, una sterzata, una cesura, un ritorno alle origini. E invece è impossibile guardarlo senza vederlo come l’ideale quarto capitolo della Trilogy of Imagination, in continuità stilistica quasi perfetta con i tre precedenti.

Rispetto a Munchausen e Brazil la differenza principale è che con La leggenda del re pescatore torniamo alla realtà, abbandoniamo la distopia e il fantasy per spostarci in territori che altre persone più colte di noi definirebbero “realismo magico”. Jack Lucas (Jeff Bridges che fa le prove generali per Il grande Lebowski) è un DJ che dice cose provocatorie in radio; un giorno una sua uscita particolarmente infelice spinge un tizio a compiere una strage a mano armata. Tra le vittime c’è la moglie del medievalista Henry Sagan (Robin Williams in quella che se chiedete a noi è la miglior prova della sua carriera insieme a Good Morning, Vietnam), che impazzisce letteralmente per il dolore, molla il lavoro e la casa, cambia il suo nome in Parry e diventa un senzatetto che si autodefinisce “il bidello di Dio” (“the janitor of God” in originale).

L’incontro fortuito tra i due li mette entrambi su una traiettoria che li porterà a una qualche forma di redenzione, a superare lo shock, ad accettare le conseguenze delle proprie azioni e anche a trovare l’amore, perché La leggenda del re pescatore è, come quasi tutti i film di Gilliam, una zuppa di generi e influenze nella quale galleggia anche un grosso pezzo di rom-com. Come in ogni fantasy che si rispetti ci sono creature fatate, visioni, accadimenti inspiegabili e un inquietante Cavaliere Rosso che perseguita il povero Parry, e che, scopriremo nel corso del film, rappresenta il momento della morte della moglie e la sua testa che esplode dopo la fucilata. Ma accade tutto sullo sfondo di una New York crudelmente reale, dove il pericolo vero è rappresentato da teppisti armati che si divertono a menare i barboni più che da immaginarie entità.

In altre parole la storia di LaGravenes è gilliam-iana fino al midollo. Come lo è la messa in scena, che abbonda di tutte quelle soluzioni che l’ex Monty Python ha sempre usato per i suoi film: una profondità di campo talmente ampia da distorcere l’immagine, gli angoli sghembi, scenografie straripanti di dettagli. La leggenda del re pescatore è gilliam-iano nella direzione del cast; lo è nel modo in cui chiude il sipario con una soluzione iperreale e troppo bella per essere vera – e che in quanto tale esiste nelle storie, non nella realtà, ed è un bene perché sono le storie quelle che contano davvero nei film di Terry Gilliam. C’è persino un’intera sequenza, che comprende un valzer e che Gilliam non avrebbe voluto girare, perché pensava che il pubblico l’avrebbe percepita come “troppo Gilliam”.

La leggenda del re pescatore rolggio

La morale di questa favola, quella dei trent’anni di La leggenda del re pescatore, è quindi la stessa espressa dal film: dal passato non si scappa, è impossibile seppellirlo e ignorarlo o travestirlo da qualcosa d’altro – bisogna farci pace, accettarlo in quanto parte di noi e usarlo per ripartire. Terry Gilliam provò a seppellire il suo passato recente facendo un film che fosse “il meno Gilliam possibile”. Ne uscì un film 101% Gilliam, e che informerà anche tutte le opere successive dell’autore; e se chiedete a noi va bene così, anzi, meglio.

Continua a leggere su BadTaste