La leggenda del re pescatore, compie trent’anni il film con il quale Gilliam provò a non fare Gilliam (e non ci riuscì)
La leggenda del re pescatore, il film con il quale Terry Gilliam provò a fare qualcosa di diverso dal suo solito, compie trent’anni
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I film della trilogia sono, oltre a I banditi del tempo, Brazil (una distopia kafkiana che parla, tra le altre cose, del potere schiacciante e incomprensibile della burocrazia) e Le avventure del Barone di Munchausen (la tragicommedia di un illuso e un film su come l’illusione possa arrivare a sostituire la realtà, e le storie a prendere il posto delle cronache). Tre opere che hanno apparentemente pochissimo in comune ma che sono percorse dalle stesse tematiche – che resteranno irrimediabilmente appiccicate a Gilliam negli anni successivi, al punto che con il senno di poi l’idea della Trilogy of Imagination perde un po’ di senso a fronte di una carriera che ha proseguito sugli stessi binari per anni. A partire proprio da La leggenda del re pescatore, il film con il quale Gilliam provò a staccarsi da sé stesso, fallendo rovinosamente.
Non solo: La leggenda del re pescatore è il primo film della sua carriera nel quale non compare alcun membro dei Monty Python. È anche il primo film della sua carriera non scritto da lui: la sceneggiatura fu affidata a un allora quasi esordiente Richard LaGravenese, che nel giro di pochi anni scriverà I ponti di Madison County, L’uomo che sussurrava ai cavalli e La piccola principessa di Alfonso Cuaron. E ovviamente costò meno dei predecessori: 24 milioni di dollari, contro gli oltre 40 di Munchausen. Insomma: doveva essere una svolta, una sterzata, una cesura, un ritorno alle origini. E invece è impossibile guardarlo senza vederlo come l’ideale quarto capitolo della Trilogy of Imagination, in continuità stilistica quasi perfetta con i tre precedenti.
Rispetto a Munchausen e Brazil la differenza principale è che con La leggenda del re pescatore torniamo alla realtà, abbandoniamo la distopia e il fantasy per spostarci in territori che altre persone più colte di noi definirebbero “realismo magico”. Jack Lucas (Jeff Bridges che fa le prove generali per Il grande Lebowski) è un DJ che dice cose provocatorie in radio; un giorno una sua uscita particolarmente infelice spinge un tizio a compiere una strage a mano armata. Tra le vittime c’è la moglie del medievalista Henry Sagan (Robin Williams in quella che se chiedete a noi è la miglior prova della sua carriera insieme a Good Morning, Vietnam), che impazzisce letteralmente per il dolore, molla il lavoro e la casa, cambia il suo nome in Parry e diventa un senzatetto che si autodefinisce “il bidello di Dio” (“the janitor of God” in originale).
L’incontro fortuito tra i due li mette entrambi su una traiettoria che li porterà a una qualche forma di redenzione, a superare lo shock, ad accettare le conseguenze delle proprie azioni e anche a trovare l’amore, perché La leggenda del re pescatore è, come quasi tutti i film di Gilliam, una zuppa di generi e influenze nella quale galleggia anche un grosso pezzo di rom-com. Come in ogni fantasy che si rispetti ci sono creature fatate, visioni, accadimenti inspiegabili e un inquietante Cavaliere Rosso che perseguita il povero Parry, e che, scopriremo nel corso del film, rappresenta il momento della morte della moglie e la sua testa che esplode dopo la fucilata. Ma accade tutto sullo sfondo di una New York crudelmente reale, dove il pericolo vero è rappresentato da teppisti armati che si divertono a menare i barboni più che da immaginarie entità.
In altre parole la storia di LaGravenes è gilliam-iana fino al midollo. Come lo è la messa in scena, che abbonda di tutte quelle soluzioni che l’ex Monty Python ha sempre usato per i suoi film: una profondità di campo talmente ampia da distorcere l’immagine, gli angoli sghembi, scenografie straripanti di dettagli. La leggenda del re pescatore è gilliam-iano nella direzione del cast; lo è nel modo in cui chiude il sipario con una soluzione iperreale e troppo bella per essere vera – e che in quanto tale esiste nelle storie, non nella realtà, ed è un bene perché sono le storie quelle che contano davvero nei film di Terry Gilliam. C’è persino un’intera sequenza, che comprende un valzer e che Gilliam non avrebbe voluto girare, perché pensava che il pubblico l’avrebbe percepita come “troppo Gilliam”.
La morale di questa favola, quella dei trent’anni di La leggenda del re pescatore, è quindi la stessa espressa dal film: dal passato non si scappa, è impossibile seppellirlo e ignorarlo o travestirlo da qualcosa d’altro – bisogna farci pace, accettarlo in quanto parte di noi e usarlo per ripartire. Terry Gilliam provò a seppellire il suo passato recente facendo un film che fosse “il meno Gilliam possibile”. Ne uscì un film 101% Gilliam, e che informerà anche tutte le opere successive dell’autore; e se chiedete a noi va bene così, anzi, meglio.