La fiera delle illusioni è fiero delle sue illusioni

La fiera delle illusioni è un’opera sontuosa che usa la sua bellezza per mascherare una certa freddezza di fondo

Condividi
La fiera delle illusioni è arrivato in streaming su Disney+

È molto difficile trovare qualcosa da dire contro La fiera delle illusioni, che potrebbe essere il miglior film di Guillermo del Toro e che ambisce a portarsi a casa qualche statuetta agli Oscar. Diventa quasi impossibile se pensate che persino Martin Scorsese si è speso per esaltare l’opera e incitare la gente ad andare al cinema – un consiglio disatteso in massa considerando quanto è andato male al botteghino, ma questo è un altro discorso che ha più a che fare con questioni collaterali (pandemia su tutte) che sul valore stesso del film. Eppure riguardandolo ora che è arrivato in streaming, sullo schermo di un televisore per quanto grande, lontani dall’impatto devastante che un’opera così sontuosa non può non avere quando passa su un grande schermo, qualche piccolo, strisciante dubbio su La fiera delle illusioni sale. Non abbastanza da rovinare, appunto, l’illusione, ma sufficienti a farci riflettere sulla classifica deltoriana accennata sopra.

Quando un mese e mezzo fa vi abbiamo parlato dell’originale (o meglio, del primo adattamento del romanzo di Gresham) abbiamo incentrato quasi tutto il pezzo su un dettaglio – il fatto, cioè, che il film di Goulding era in bianco e nero per necessità ma avrebbe beneficiato del colore. La fiera delle illusioni versione del Toro conferma questa nostra affermazione: l’autore messicano ha sempre giocato nei suoi film con i contrasti tra colori caldi e freddi e i loro significati (anche controintuitivi, se pensate che in Il labirinto del fauno è il mondo soprannaturale a essere “caldo” e accogliente, non quello reale), e la sua ultima fatica esalta questa sua caratteristica, giocando con le tavolozze e mischiandole anche in caso di necessità, all’interno della stessa scena o anche della stessa inquadratura.

Blake Ciancett

Il trionfo del colore, che fa sì che sostanzialmente La fiera delle illusioni versione del Toro stia all’originale come la parte a Oz di Il mago di Oz sta a quella in Texas, è solo uno degli infiniti motivi formali per cui non si può fare a meno di esaltare l’opera – motivi che, potrebbero portare a casa del messicano una serie di statuette dorate dal grande valore simbolico (ecco perché attendiamo con curiosità l’uscita anche in home video della versione in bianco e nero che è passata in qualche cinema americano a gennaio: che effetto farà il film spogliato dei suoi colori?).

La fiera delle illusioni è, lo avevamo già scritto nella nostra recensione, il film di un autore ormai adulto e che ha raggiunto la perfezione formale – un maestro e non una promessa. Non c’è una singola inquadratura che non sia pesata al millimetro, nessun movimento di macchina superfluo, nessuna comparsa che non sia perfettamente integrata nell’ordito del film anche se deve solo stare sullo sfondo a fare presenza. Dura due ore e mezza perché si prende tutto il tempo necessario per srotolare lentamente il suo intreccio, ma non dà mai la sensazione di essere appesantito da sequenze superflue o tirare troppo per le lunghe.

Famfatal

Persino i numerosi flashback sul passato di Stan Carlisle (Bradley Cooper in una delle interpretazioni della vita), uno dei potenziali inciampi più pericolosi per qualsiasi film del mondo, risultano invece azzeccatissimi: rivelano pezzo dopo pezzo il grande e turpe segreto di Stan, e i limiti oltre i quali è disposto a spingersi perché non ha una vera coscienza, e lo fanno muovendosi in parallelo con le identiche rivelazioni che ci regala la c.d. “trama principale” – man mano che Stan abbandona i suoi modi affabili per rivelarsi il delinquente che è, si alza in parallelo il velo sul misterioso incendio con cui si apre il film, a dimostrare uno dei messaggi centrali del film, forse il più pessimista: che il cambiamento, almeno per certe persone, è impossibile, non importa quanto provino ad aggrapparsi a una figura femminile dopo l’altra per fuggire da loro stessi.

È un film profondamente e anche manifestamente psicologico, La fiera delle illusioni, talmente tanto che non ha vergogna a sbatterci in faccia una serie di letterali sedute sul lettino e usarle come surrogato per spiegare l’attrazione reciproca tra Stan e la dottoressa Ritter (Cate Blanchett, alla quale non poteva essere offerto un ruolo più adatto). È quasi didascalico là dove, per esempio, La forma dell’acqua era simbolico, e lo è ancora di più ogni volta che qualcuno ferma tutto per mettersi a spiegare i suoi trucchi del mestiere, che diventano una meta-riflessione sui meccanismi del cinema e più in generale dello spettacolo (e quindi dell’inganno, e del patto non scritto tra pubblico e opera che prevede che il primo sia felice di farsi ingannare e la seconda faccia il possibile per accontentarlo).

Brad

La fiera delle illusioni è anche però un film gelido come la morte, in un modo che semplifica e banalizza il ritratto ben più sfumato del mondo del circo-e-dintorni fatto dal romanzo e dal film di Goulding. In certi casi è colpa degli interpreti: Rooney Mara è eterea, fragile, adorabile, ma anche anemica e un po’ innocua, il che è in linea con alcuni tratti del suo personaggio ma non spiega fino in fondo come mai un tipo come Stan possa innamorarsene perdutamente. E lo stesso discorso si può fare su Cate Blanchett: la sua demoniaca Lilith è perfetta, ma è anche uno stereotipo su due gambe, che fa quello che fa perché è una bionda forte e immorale – perché lo dice il manuale, perché è così che sono questi personaggi in questi film.

Forse è proprio l’aderenza estrema di del Toro ai canoni dei generi da cui più pesca (il noir su tutti) a dare l’impressione che La fiera delle illusioni sia un meccanismo perfettamente calibrato più che una storia incasinata e vitale come sono tutte le migliori storie. Tutti i plot point accadono esattamente quando devono accadere e ogni svolta narrativa viene accettata senza fiatare da tutti i personaggi coinvolti; persino (restiamo sul vago) il tradimento finale che fa da contrappasso dantesco alle due ore precedenti è qualcosa che semplicemente succede, senza un vero momento di rottura che possa farlo presagire. È come se la scrittura, il susseguirsi degli eventi e dei colpi di scena, avesse il sopravvento su tutto il resto, compresi quei difetti e imperfezioni che rendevano lo Stan di Tyrone Power un personaggio infinitamente più tridimensionale di quello di Bradley Cooper.

La fiera delle illusioni Brad

Sia chiaro che queste considerazioni nulla tolgono al valore di La fiera delle illusioni, che è, prima di ogni altra cosa, grande cinema che merita di essere visto. Se però doveste vederlo e scoprire che vi è piaciuto ma non l’avete amato, che avete i brividi alla ghiandola della cinefilia ma che non avete versato una lacrima sul crudelissimo finale (molto più ficcante di quello del 1947, tra l’altro), che avete più voglia di parlare dei set e delle inquadrature e dei costumi che della storia d’amore tra Stan e Molly, non sentitevi in colpa: non siete voi, è il film, che è bello ma gelido e che ama rimirarsi allo specchio, fiero delle sue illusioni.

Siete d'accordo con noi? Ditecelo nei commenti!

Trovate tutte le informazioni sul film nella nostra scheda

Continua a leggere su BadTaste