La fabbrica di cioccolato ha un difetto: un incontrollabile, e non in senso buono, Johnny Depp
La fabbrica di cioccolato di Tim Burton è un’opera piena d’amore per il romanzo di Roald Dahl – forse troppo per il suo bene
Non più tardi di un paio di mesi fa ci chiedevamo se Sweeney Todd fosse l’ultimo grande film della coppia Burton-Depp, e pochi giorni dopo ci domandavano se Alice in Wonderland, arrivato tre anni dopo, non fosse invece stato l’inizio della fine. In tutti questi discorsi c’è un convitato di pietra del quale dobbiamo ancora parlare, e che in realtà non è di pietra ma di un materiale ben più dolce: parliamo di La fabbrica di cioccolato, uscito nel 2005, due anni prima del film sul barbiere di Fleet Street e contemporaneamente a quella che è unanimemente considerata una delle opere migliori di Burton, La sposa cadavere. Il film su Willy Wonka è un caso curioso nella filmografia del regista di Burbank: accolto con entusiasmo da critica e pubblico (ma snobbato dall’Academy), il suo successo durò il tempo della sua permanenza in sala; dopodiché è stato un po’ dimenticato, e mai davvero ridiscusso. Eppure, a riguardarlo oggi, si notano parecchi dei problemi che sarebbero poi esplosi da Alice in avanti – uno su tutti un incontrollabile, e non in senso buono, Johnny Depp.
La fondazione cedette solo nel 1998, a una condizione: avrebbero dovuto avere controllo artistico totale, e l’ultima parola su regista, cast e sceneggiatura. Andò molto bene: a quanto pare la vedova di Dahl, Felicity, aveva un solo nome in testa, quello di Tim Burton, il quale a sua volta era un fan del romanziere inglese fin da bambino. Questa felice coincidenza eliminò immediatamente tutti gli altri nomi che erano stati presi in considerazione dalla produzione, e anche le discussioni sul protagonista si chiusero al volo: si era parlato, per il ruolo di Willy Wonka, di Nicolas Cage, Bill Murray o Jim Carrey, ma Burton tirò fuori dalla tasca il cellulare e chiamò il primo numero salvato in rubrica, quello di AAAJohnny Depp, la sua musa, il suo feticcio, con il quale non lavorava da sei anni (Sleepy Hollow) e che accettò con entusiasmo – e faccette, come vedremo tra un po’.
Depp si trascinò dietro Freddie Highmore (con il quale aveva lavorato in Finding Neverland), Burton scelse il resto del cast, e cominciarono le grandi opere: aprire la fabbrica di cioccolato del signor Wonka, e farci entrare i cinque bambini e bambine con abbastanza fortuna da trovare un biglietto dorato in una tavoletta di cioccolato. Parliamoci chiaramente: la storia di La fabbrica di cioccolato è arcinota, e anche tu che stai leggendo la conosci alla perfezione; non serve riassumerla, solo segnalare come Burton sia riuscito nel miracolo di selezionare il cast perfetto, e non si sia accorto di quel piccolo/grande problema che aveva dato per scontato.
Ci sono tantissimi motivi per apprezzare il lavoro fatto da Burton e dallo sceneggiatore John August con La fabbrica di cioccolato. Si vede che Burton ama il romanzo, e lo conosce a memoria: come detto, la sua versione è molto più aderente all’opera di Dahl rispetto al film del 1971. E si vede, ed è una cosa importantissima in un film così ad alto budget, che Burton ha voglia di artigianato, di non soffocare tutto sotto una passata di CGI che risolve ogni problema ma di inventarsi soluzioni, per l’appunto, artigianali, e sempre molto concrete. I set sono quasi tutti costruiti da zero, non proiettati su green screen, per favorire l’immersione anche degli attori; gli scoiattoli della famosa, be’, scena degli scoiattoli? Sono veri, e addestrati per l’occasione. Altro motivo di lodi sperticate: è noto che una delle cose più difficili che si possano fare al cinema è lavorare con i bambini, eppure qui Burton non solo sceglie solo facce perfette per i rispettivi ruoli, ma le dirige con maestria, tanto che i cinque fortunati possessori del biglietto dorato fanno (quasi) fare una brutta figura al resto del cast, che pure è pieno di nomi noti e di talento.
Con una sola, dolorosissima eccezione: Johnny Depp come Willy Wonka è innocuo, fuori luogo e a tratti irritante, un terrificante incrocio tra Jack Sparrow e Anna Wintour che basa la sua intera interpretazione su faccette e faccettine che sembrano uscite da uno spettacolo di Nando Martellone. Dove Gene Wilder riusciva a incutere timore grazie al suo sorriso da psicopatico che tiene un fucile sotto il letto, Johnny Depp riesce al massimo a suscitare una vaga irritazione, peggiorata dalla sua affettatissima prestazione vocale che tocca i suoi punti più bassi tutte le volte che deve imprecare con termini molto britannici. Il suo distacco macchiato di sociopatia e un’evidente senso di superiorità risulta forzatissimo, teatrale e costruito nell’accezione peggiore del termine; e ogni volta che Depp si concede un monologo, o un paio di frasi più lunghe della media, ammazza completamente il ritmo del film.
Ritmo che già di per sé non è altissimo: La fabbrica di cioccolato è una parabola morale in cinque tappe che servono a impartire lezioni piuttosto semplici ad altrettanti personaggi caratterizzati da eccessi tipicamente infantili – il bambino che pensa solo a mangiare, la bambina viziata, la bambina che vuole solo vincere perché sua madre proietta questo desiderio su di lei trasformandola in una mostruosa Mini-me avviatissima verso la tossicodipendenza... –, e Burton appesantisce una struttura già non scoppiettante con una valanga di numeri musicali e con lunghe divagazioni a mostrarci le sue matte invenzioni di scenografia (la più interessante è forse la prima che vediamo: reimmaginarsi la fabbrica di Willy Wonka come una sorta di incubo metallico tra il brutalista e il futurista). Non c’è niente di male, ma l’impressione spesso è di stare guardando un film che Tim Burton ha girato prima di tutto per se stesso, che finisce quindi per trascinarsi in una sorta di melassa al triplo cioccolato, che lascia lo stomaco pesante e la bocca un po’ impastata. E per concludere senza uscire dalla metafora, Johnny Depp è il capello rimasto nella melassa.