La critica italiana fa male agli incassi…

Ma non quando stronca, ma quando esalta un film! Incredibile ma vero, basta vedere i dati al botteghino per accorgersi di come la nostra critica non riesca a portare avanti le sue pellicole preferite…

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Rubrica a cura di ColinMckenzie

Circa un anno fa, mi ricordo di un illuminante articolo di Paolo Mereghetti su Ciak, in cui si parlava dell’influenza della critica per portare al successo i film d’autore. Si diceva che la critica spesso non riuscisse a convincere il pubblico a vedere certi film, ma che quando questo avveniva era una bella soddisfazione. La ‘dimostrazione’? Gli ottimi incassi italiani di Into the Wild, la pellicola di Sean Penn. Già allora, la questione mi sembrava discutibile. Insomma, o la critica ha un’influenza che è misurabile con diverse prove e che si ripete spesso. O invece non ce l’ha e allora la comunanza di opinioni con il pubblico su alcuni prodotti è una semplice coincidenza.
Bene, con questo articolo vorrei dimostrare proprio questo, ossia che il rapporto tra critica e incassi è pressoché inesistente. Almeno, in senso positivo, perché di successi amati dalla critica e portati alla ribalta dai giornalisti ce ne sono veramente pochi (se ce ne sono). Ma la grande novità è che non solo la critica non è utile a certi film, ma che talvolta rischia anche di essere dannosa e controproducente. Insomma, un ‘bacio della morte’, come sembrano indicare certi risultati…

I successi
In tutto il mondo, capita spesso che pellicole di grande successo non siano amate dalla critica. La ragione è semplice: molto spesso, per convincere, questi prodotti puntano a essere un minimo comun denominatore dei gusti del pubblico e per questo un buon critico ha anche ragione a non farsi abbindolare. Tuttavia, non è neanche vero che ogni pellicola dagli incassi notevoli debba essere mediocre. Basti pensare all’enorme successo americano de Il cavaliere oscuro (secondo miglior risultato di sempre dopo Titanic) e confrontarlo con i dati italiani (meno di dieci milioni di euro, che significa ingresso a fatica nei primi 15 titoli dell’anno).

Comunque sia, non è il caso di discutere molto di pellicole come Natale a Rio, il cinepanettone che la critica ama odiare (anche se ultimamente con un po’ meno di irruenza). Ma ci sono un paio di esempi che dimostrano un’eccessiva distanza tra critica e pubblico, con la scelta della prima di attaccare quasi più le intenzioni di una pellicola che i risultati. Una situazione interessante è quella de Il curioso caso di Benjamin Button. Giunto a 11 milioni in Italia nonostante un’accoglienza critica alquanto freddina, ci si chiede se veramente almeno il lavoro tecnico straordinario svolto non meritasse maggiore considerazione. Insomma, che la storia piaccia o meno è questione soggettiva, ma si ha l’impressione che la nostra critica sia interessata esclusivamente al contenuto di una pellicola (che viene considerata la vicenda narrata) e non alla sua forma.

Dove però è stato effettuato generalmente un massacro quasi inspiegabile, è nella reazione a Twilight. Ora, nessuno sostiene che questa pellicola sia un capolavoro, per carità. Ma sfido io a trovare qualsiasi film italiano (sentimentale o meno) che sia stato distrutto con tanta ferocia, nonostante il lavoro della Hardwicke e dei suoi attori sia stato assolutamente professionale. Francamente, non mi ricordo una derisione così assoluta di Parlami d’amore di Silvio Muccino, che era decisamente su altri livelli negativi.

C’è poi un caso interessante, anche se facilmente spiegabile. Il codice da Vinci nel 2006 ha raccolto infatti 28 milioni in Italia, nonostante sia stato generalmente massacrato dalla stampa. Angeli e demoni, che ha ricevuto critiche decisamente più benevole, ne ha fatti meno di 20. Ovviamente, anche questo è un ottimo risultato ed è inferiore al suo predecessore per ragioni semplici, come la maggiore popolarità di quel romanzo e il grande interesse mediatico che si era venuto a creare. Di certo, non si può dire che le recensioni più calorose abbiano fatto bene agli incassi.

I cartoni animati
Dove il ‘bacio della morte’ della critica sembra funzionare perfettamente, è nel capitolo cartoni animati. Si faticherà a trovare un critico importante che preferisca i lavori della Dreamworks a quelli della Pixar. E, mi viene da aggiungere, a ragione. Tuttavia, è il modo che non funziona. Spesso infatti si ha l’impressione, leggendo certe penne illustri (anche recentemente per Coraline), che alcuni prodotti siano fatti solo per un pubblico adulto, nonostante in realtà siano assolutamente godibilissimi anche dai più piccoli. Altrimenti, non so proprio come spiegarmi certi dati. D’accordo, il Natale avrà anche aiutato parecchio Madagascar 2, ma superare i 25 milioni di euro è comunque qualcosa di spaventoso. E che dire dei 17 milioni del mediocre (e doppiato malissimo) Kung Fu Panda? Che, in teoria, come i risultati di Madagascar 2 potrebbero anche starci in senso assoluto. Ma non ci stanno proprio se confrontati con quelli di Wall-E, che non ha ottenuto neanche 9 milioni. Magari, sarà colpa di tutti quei giornalisti (anche non critici) che si addentravano soltanto sul messaggio politico-ecologista, quando in realtà forse l’unico, vero difetto del film era proprio la metafora di grana grossa nella seconda parte. E che dire del maestro Miyazaki, che in Italia proprio non riesce a sfondare il milione di euro, neanche con il suo nuovo Ponyo? Come indicato qui, di sicuro non hanno contribuito certe recensioni che rendevano ermetica una pellicola che in realtà è rivolta soprattutto ai bambini.

Pellicole d'autore snobbate
Il campo dove la critica dovrebbe essere fondamentale è senza dubbio quello delle pellicole d’autore. Categoria decisamente ‘ambigua’ come definizione, ma in cui possiamo genericamente far rientrare tutti quei titoli che non hanno enormi budget pubblicitari e che presentano tematiche non da grande pubblico (o almeno, non sulla carta). Molti di questi titoli hanno ricevuto un’importante esposizione mediatica grazie agli Oscar, che sicuramente sembra la ragione principale dei loro incassi (buoni o mediocri che siano), piuttosto che la critica, che non sembra essere riuscita a spingere molto. Parlo di prodotti come Il dubbio (ha aperto con 500.000 euro, meno di due milioni totali), Revolutionary Road (debutto con 1,2 milioni, sui 3,5 totali), Frost/Nixon (meno di 300.000 all’esordio e neanche 700.000 finali), Valzer con Bashir (primo weekend con meno di 100.000 euro, poco sopra i 700.000 euro conclusivi) e The Reader (ha aperto con 537.000 euro, sui 2,4 milioni totali). Il caso di The Millionaire (esordio con 250.000 euro, poco più di 6 milioni) sembra proprio confermare questa teoria. Uscito il 5 dicembre 2008 in Italia, ha avuto tutte le vacanze natalizie per sfondare, ma in realtà all’11 gennaio, ossia al suo sesto weekend, era a malapena arrivato ai due milioni, praticamente la stessa cifra de Il bambino con il pigiama a righe, che però aveva esordito due settimane più tardi. I veri soldi The Millionaire li ha fatti con l’Oscar, prima con le nomination, che hanno permesso di ragranellare altri 1,3 milioni in un periodo non facile, e poi soprattutto con la vittoria, che ha consentito di superare i 6 milioni. Ottimo risultato per una pellicola che, al primo weekend, nonostante il responso molto positivo della critica nostrana, aveva fatto solo 250.000 euro e non era neanche entrata nella top ten.

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Passaparola più che critica
Non tutti i film d’autore vanno male, anzi. Se pensiamo a La classe (poco più di 250.000 euro il primo fine settimana, 1,6 milioni totali), L'ospite inatteso (ha aperto con 95.000 euro, 1,3 milioni complessivi), Stella (ha aperto con 22.000, vicino ai 400.000) e Il giardino di limoni (meno di 40.000 euro all’inizio, poco sopra il milione alla fine), vediamo come di titoli che si sono fatti notare, nonostante le poche possibilità commerciali e di marketing, ce ne sono. Tuttavia, in questi quattro casi notiamo come l’esordio sia stato decisamente basso rispetto al risultato finale. Certo, in alcune situazioni (soprattutto Il giardino di limoni) la pellicola ha aperto volutamente in poche sale, ma questi dati dimostrano che a essere fondamentale è stato il passaparola del pubblico nelle settimane successive all’uscita. Basta vedere dei casi in cui, nonostante la buona accoglienza critica, il film non ha ottenuto un rapporto notevole tra primo weekend e incasso totale. Possiamo parlare di titoli come Home (24.000 all’esordio, poco più di 100.000 euro totali), Religiolous (meno di 100.000 euro complessivi) e lo splendido Louise Michel (120.000 aperti all’esordio, intorno ai 500.000 complessivi). Ma ci sono due casi che sono veramente emblematici. Una delle pellicole più acclamate del 2008/2009 è stata sicuramente Lasciami entrare, ma questo non ha permesso di andare oltre ai 500.000 euro, un dato pessimo e che probabilmente è dipeso anche dalla volontà del distributore di puntare più sul pubblico d’essai che su quello che ama gli horror. Ma dove si sono raggiunte visioni psichedeliche da parte della critica è stato con i due capitoli del Che. Pochi critici hanno avuto il coraggio di ironizzare (come ha fatto Stefano Disegni su Ciak) su quattro ore di pellicole passate in buona parte a parlare nelle giungle, ma anzi molti hanno gridato al capolavoro soprattutto per il secondo capitolo. Risultati? Che l’argentino, che ovviamente ha beneficiato dell’interesse verso questo personaggio in Italia, ha superato i due milioni. Che – guerriglia, per cui il pubblico era già scafato verso lo ‘sperimentalismo’ di Soderbergh, ha raccolto meno di 650.000 euro (neanche un terzo rispetto al suo predecessore), nonostante le già menzionate esaltazioni di certa stampa. Di cui il pubblico ha imparato a non fidarsi troppo, visti i rischi che si corrono.

Festival sfortunati
Ogni anno, durante i Festival di Cannes o di Venezia (per Roma il fenomeno è più limitato), avviene uno strano fenomeno. Titoli improbabili e che sarebbe eufemistico definire di ultranicchia diventano all’improvviso popolarissimi e degni di avere paginate di giornale che di solito si regalano a un Harry Potter o un Angeli e demoni. L’idea è che tutti (direttori, redattori, responsabili di spettacolo e critici) si convincono che, se una pellicola etiope passa a un Festival importante, allora l’interesse del pubblico è fortissimo. Ovviamente, è un’idea folle, che non fa che confermare la distanza tra quello che i giornalisti tradizionali considerano (da più di cinquant’anni) il modo di parlare di cinema e quello che invece attira il pubblico. Così, ci ritroviamo con incassi totali di pellicole straniere come Hurt Locker (un totale disastro, poco più di 100.000 euro, nonostante l’ottima accoglienza della stampa), La banda Baader Meinhof (meno di 300.000 euro), Il canto di Paloma (poco più di 150.000 euro), Machan (poco più di 100.000 euro), Le tre scimmie (meno di 150.000), Tulpan (non arriva a 100.000) e Rachel sta per sposarsi (poco più di 200.000 euro, nonostante anche la candidatura all’Oscar di Anne Hathaway).

Questo discorso è ancora peggiore per certi titoli italiani, che comunque quasi sempre in qualche Festival ci finiscono. In particolare, si fonde anche un altro elemento importante, ossia i film ‘civili’, che poi sono la maggioranza di quelli prodotti (perché le tematiche ‘importanti’ magari aiutano per avere contributi pubblici). Penso a titoli come La siciliana ribelle (63.000 euro all’esordio, sui 150.000 totali), Fortapàsc (meno di 700.000 euro in tutto), Il seme della discordia di Pappi Corsicato (poco più di un milione), La terra degli uomini rossi con 300.000 euro, L'uomo che ama (meno di un milione e mezzo, nonostante le star Bellucci-Favino), Il passato è una terra straniera (circa 700.000 euro, anche se è stato prababilmente il titolo italiano più apprezzato al Festival di Roma), Galantuomini (che chiuderà con meno di 600.000 euro), Amore che vieni, amore che vai (meno di 100.000 euro), Non ci casco (40.000 euro complessivi) e Anima nera (30.000).
Ora, non tutti questi titoli hanno avuto recensioni esaltanti, ma l’impressione di un certo buonismo da parte della critica nostrana è stato quasi sempre evidente.

Conclusioni
Ora, a impegnarsi, qualche titolo ‘aiutato’ dalla critica magari lo possiamo anche trovare. Forse, per esempio, si potrebbe parlare degli ottimi dati delle due pellicole di Clint Eastwood Changeling (5,2 complessivi) e Gran Torino (quasi 9 milioni). Ma anche qui ritorna il discorso sul passaparola fatto prima e peraltro, anche a voler essere positivi, l’idea che la critica riesca ad aiutare soltanto una leggenda che fa cinema da sessant’anni non è esaltante.

Quello che però sembra evidente è un’assoluta difficoltà (quando non proprio mancanza di volontà) della critica nel far capire i film. Insomma, va benissimo difendere piccoli titoli e magari anche complicati/poco commerciali, ma perché non ci si mette nei panni di uno spettatore comune che magari dopo 8 ore di lavoro vuole rilassarsi? Basterebbe far capire a chi legge se un film rischia di annoiare o meno, in modo che il pubblico possa sapere di potersi fidare e non tema di andare incontro alla ‘fregatura’. Che, a mio avviso, è poi la ragione per cui molti ormai fanno attenzione ai film esaltati dalla critica per sapere cosa NON andare a vedere.

Un altro aspetto da considerare è quello dei film minori. Va benissimo che i giornalisti cerchino di trovare spazio per pellicole piccole, ma perché le uniche cose di cui si parla devono essere le uscite al cinema o i titoli che passano ai Festival? Chi stabilisce che un titolo italiano che esce in due copie (letteralmente) sia più interessante di un documentario inedito come Man on Wire o un film candidato agli Oscar come Little Children, mai arrivato nei cinema nostrani? Insomma, come insegna Chris Anderson, il fenomeno della ‘lunga coda’ dovrebbe far capire a tutti che è sempre più facile trovare prodotti di nicchia e che limitarsi a parlare soltanto di quello che arriva in sala o nei Festival non è sempre la soluzione migliore.

E Badtaste? Giustamente, qualcuno si potrebbe chiedere se anche Badtaste non ha nessuna influenza (piccola o grande che sia) sull’interesse dello spettatore. In realtà, per il nostro modo di lavorare, è abbastanza evidente come certi titoloni comunque interesseranno al pubblico che ci segue e che li andrà a vedere senza esitazione, qualsiasi possa essere la recensione. Ma dove invece, a mio avviso, c’è una differenza con i media tradizionali è proprio nei titoli meno noti. Basta vedere il Discutiamone nel Forum Cinema  

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