La carriera di Frank Miller: da Sin City a Sparta con il Tuttocittà
In concomitanza con l'uscita di Sin City: Una donna per cui uccidere, ecco una retrospettiva della carriera di Frank Miller, per temi, opere e opinioni
Alpinista, insegnante di Lettere, appassionato di quasi ogni forma di narrazione. Legge e mangia di tutto. Bravissimo a fare il risotto. Fa il pesto col mortaio, ora.
In principio fu Daredevil, un personaggio della Marvel che ancora non aveva il volto di scamone o di roast-beef di Ben Affleck nell'immaginario cinematografico di tutti noi. Se ancora non aveva subito il duro colpo di essere interpretato da Mister Bistecca, Matt Murdock non se la passava comunque bene. Non era più il personaggio fortemente pop degli anni Sessanta né il protagonista di storie pulp e improntate sulla fantascienza scritte nel decennio successivo dal maestro Gerry Conway. Eppure il processo di rinnovamento e di svecchiamento che lo avrebbe portato ad essere l'eroe in maschera più oscuro e tormentato dell'Universo Marvel era già in atto. Lo sceneggiatore Marv Wolfman aveva preparato il terreno per gli anni Ottanta rendendo il Diavolo Rosso un eroe urbano, l'incubo notturno della malavita, un giustiziere di poche parole e ai limiti dell'antieroismo. Daredevil spezzava dita, parlava chiaro ed era ben lontano dall'essere l'allegrone di qualche anno prima. Ma non piaceva più al pubblico. Wolfman non aveva trovato la quadratura del cerchio e fu sostituito da un giovane Frank Miller. L'idea geniale di Miller e della Marvel fu quella di non cambiare strada, di proseguire nel processo di rinnovamento del personaggio, di renderlo ancor più duro e di giocarsi il tutto per tutto. Bullseye, nato già dalla penna di Wolfman, si prese la scena come prima nemesi di Devil; Elektra fece il suo ritorno da un passato mai narrato dell'Uomo Senza Paura, per poi uscire tragicamente di scena; il signore del crimine di New York, Kingpin, divenne il vero grande nemico da abbattere, dando vita a uno dei più affascinanti rapporti di antagonismo della storia del fumetto di supereroi. Quando poi Miller venne affiancato dal disegnatore David Mazzucchelli e scrisse il ciclo noto come Rinascita, assistemmo a un passaggio chiave per il fumetto mainstream americano. Una storia di droga, ossessione, follia e redenzione che tutti gli appassionati di comics dovrebbero leggere. Miller mostrò quanto le storie di supereroi potessero accogliere temi adulti nelle proprie avventure, quanto oscura possa farsi la vita di un giustiziere mascherato. E il genere supereroistico non sarebbbe stato più lo stesso.
Del resto, Miller aveva già dimostrato di essere un autore in grado di mescolare i generi e rinnovarli, di sapersi muovere nelle tradizioni narrative con disinvoltura e utilizzarne temi e motivi a proprio uso e consumo. Ronin, in piena epoca Daredevil, era proprio un esempio di questo particolare talento. L'epoca dell'anime e manga invasion era ancora lontana, ma il vecchio Frank citava ampiamente Lone Wolf and Cub, uno dei grandi capolavori del fumetto giapponese, omaggiando intere vignette di Goseki Kojima in questo fumetto a metà tra atmosere dark, cyberpunk e, ovviamente, estetica del Sol Levante. Se dovessimo consigliare a qualcuno un primo fumetto con cui prendere contatto con l'opera di Frank Miller, la scelta cadrebbe senza dubbio su Ronin. Solido, spettacolare, bizzarro, violento e con un Frank Miller semplicemente ispiratissimo alle matite, Ronin è terribilmente sottovalutato, quando si citano le opere migliori dell'artista.
Ma, ovviamente, siamo qui per parlare di Sin City. Quando uscì Un Duro Addio, Miller era già considerato un maestro. Quando vedemmo per la prima volta Marv frantumare a piedi uniti un'auto della polizia, improvvisamente era una leggenda. Non perché si trattasse di un fumetto migliore de Il Ritorno del Cavaliere Oscuro o di Rinascita, per quanto certamente non sia una bestemmia affiancarlo a quei titoli, ma perché Sin City era il punto di arrivo, la concretizzazione di tutto quel che l'autore aveva fatto fino a quel momento con il linguaggio e con i temi del fumetto. La grandezza delle storie di Batman e di Devil stava nella capacità di innovare, di darci nuove prospettive su personaggi amatissimi e del tutto radicati nell'immaginario collettivo. Per quanto bello sia avere una sponda di simile valore, ora Miller, come già in Ronin, navigava completamente a vista. Lavorare su un personaggio già noto del mainstream è sempre e comunque una gabbia. Per quanto si possa stravolgerlo, decostruirlo, ristrutturarlo e violentarlo, avrà sempre la sua da dire, sarà solo la tua versione, la tua personale tessera in un mosaico terribilmente più ampio. Vedere Miller e lo "stile Miller" scorrere così liberi fu esaltante anche per noi che lo facemmo soltanto anni dopo dall'uscita, una volta cresciuti e semi-adulti. Sin City abbracciava l'estetica underground dei dieci anni precedenti, con la scelta del bianco e nero in un'epoca in cui i colori degli anni Ottanta e lo stile iper-dinamico dominavano nei comics. Aveva il coraggio di abbracciare il cambiamento che Miller stesso aveva preparato, di scommettere senza alcun timore, di mescolare l'inverosimile del fumetto supereroistico con il linguaggio e i dialoghi di un noir, infischiandosene di ciò che era plausibile, prendendo per l'ennesima volta ciò che gli serviva per funzionare dai vari generi per mescolarlo in qualcosa di nuovo. E funzionò: alla perfezione anche in un Una Donna per cui Uccidere; scricchiolò pericolosamente in Un'abbuffata di morte; tornò ad esaltare tutti quanti in Quel Bastardo Giallo; cedette definitivamente alla maniera e all'abitudine nei successivi tre episodi.
Un autore che ha fatto della rottura degli schemi, della capacità di far saltare il banco la chiave del proprio successo e la propria qualità più grande, soltanto grazie a un miracolo poteva mantenersi su altissimi livelli. A spezzare la discreta e un po' avvilente monotonia degli ultimi capitoli di Sin City, il guizzo di 300. Sostenuto dall'idea di rivolgersi al passato, di rileggere secondo la propria ottica la Storia con la S maiuscola piuttosto che le storie a fumetti, 300 è un'opera visivamente potente (e questo, con Miller, è quasi scontato) ma a nostro avviso riuscita a metà. Adorato da molti, citato da decine di artisti, riprodotto in maniera discutibile da Hollywood e Zack Snyder, 300 riempie dei valori milleriani la vicenda delle Termopili, e non può che dividere, segnando almeno in parte l'emergere sempre più esplicito della volontà in qualche modo politica dell'autore nel suo approccio alla narrazione fumettistica. Il nemico dipinto come alieno e inconoscibile e Sparta e i suoi guerrieri tratteggiati come uomini di valore in contrasto non tanto o non solo con l'immoralità dei Persiani, ma soprattutto con la mollezza della civiltà ateniese, oltre a essere antistorici sono una dichiarazione di intenti del tutto esplicita. Non che il pensiero politico e conservatore, ispirato a un deciso anarchismo di destra, non emergessero potenti in Il Ritorno del Cavaliere Oscuro (chi ai tempi non volle vederli come sostrato dell'opera prese un grosso granchio) o nella durezza senza compromessi del suo Daredevil; ma in un contesto supereroistico questi temi si declinavano in una riflessione sul rapporto tra violenza ed eroismo, sul dualismo tra maschera e distintivo, sulla possibilità di un uomo di farsi simbolo e di prendere il destino di una società intera nelle proprie mani. 300 non ha a che fare con l'ambito della narrazione ma con quello della storiografia. E un'operazione del genere non può che dividere, preludendo al flop e alle polemiche che hanno caratterizzato Holy Terror.
Nato come storia per Batman e trasformato in opera indipendente, dopo il rifiuto della DC, Holy Terror è l'emblema del Miller attuale. Propagandistico (per sua stessa ammissione, con paragoni espliciti alla propaganda fumettistica che era Captain America durante la Seconda Guerra Mondiale), violento fino all'ossessione, totalmente e assolutamente monodimensionale nel suo impianto ideologico, e terribilmente superficiale, a nostro parere. Ma il problema non starebbe tanto qui: si potrebbe apprezzare o meno una storia volutamente manichea, se non fosse realizzata con uno stile terribilmente manieristico. Miller sembra voler citare se stesso, imitare di volta in volta le atmosfere usate in passato. Un bianco e nero stile Sin City da cui emerge a volte la vena orientalizzante di Ronin, accompagnata da una scansione della narrazione per tavole già vista nel Cavaliere Oscuro. Persino l'eroe, Fixer, è terribilmente già visto. Il che non stupisce, dato che avrebbe dovuto vestire i pani dell'Uomo Pipistrello ma ci fa domandare se questo Batman portato agli estremi non ci avrebbe annoiato anche con il classico mantello nero. Il che è molto probabile. Si aggiungano lunghissime fasi in cui non succede assolutamente nulla e lunghi tratti di esposizione ideologica statica, ed ecco un'opera che rischia di essere l'ultimo, deludentissimo, livoroso contributo di un autore fondamentale della storia del fumetto.
Lo sappiamo, abbiamo lasciato per strada pietre miliari come Batman: Year One o Elektra Lives Again, ma ci interessava dipingervi un autore tra i più grandi dei nostri e di tutti i tempi attraverso i cardini della sua carriera. Così che, quando andrete a vedere Sin City - Una Donna per cui Uccidere se ancora non siete stati al cinema, forse saprete da dove origina l'immaginario potente e privo di compromessi del signor Frank Miller.